martedì 29 gennaio 2019

Letture commemorative

Andreotti
(di Felice Celato)
Un quarto post di Letture in un solo mese è forse troppo! Ma, francamente, al maggior tempo disponibile si è aggiunto anche un marcato disgusto per le cronache che, inevitabilmente, spinge ad evadere verso scritti meno intrisi di quotidiano e – per diretta conseguenza – meno futili. 
Così eccomi ad una nuova segnalazione di un volume appena edito dal Corriere della Sera, per la penna di Massimo Franco, colto notista politico di lunga esperienza, in occasione del centenario della nascita di Giulio Andreotti, nato, appunto, nel 1919 e morto, come tutti sanno, nel 2013: C’era una volta Andreotti (CdS, 2019). Il sottotitolo (Ritratto di un uomo, di un’epoca e di un Paese) dice tutto sul taglio del bel libro che, in quasi 500 nitide pagine, ripercorre una biografia di Giulio Andreotti incentrata più sull’uomo e sul suo tempo (che poi è stato anche il nostro) che sul dettaglio delle vicende politiche e giudiziarie di cui è stato controverso protagonista: una volta – scrive Massimo Franco – confessò a un socialista ammirato e un po' invidioso che, guerre puniche a parte, lo hanno accusato di tutto quello che accadeva in Italia. Esagerava, naturalmente. E gigioneggiava, anche. Per Giulio Andreotti, l’immagine di uomo-scandalo è stata sempre un pezzo della sua carta di identità: e non il più piccolo. In fondo, ha rappresentato l’altra faccia della sua celebrità quasi cinematografica, il suo versante luciferino, misterioso, dannato, affascinante. Anzi, probabilmente ha costituito la vera base delle sue fortune e alla fine, dei suoi guai. Essere stato al governo per oltre quarant’anni ha contribuito al successo andreottiano, certo. Ma don Giulio il successo se l’è costruito anche entrando  e uscendo come uomo-salamandra in tutte le vicende più torbide della politica italiana. Nella realtà,  forse, aggiungerei io; e nella fantasia smodatamente mitologica dei suoi più tenaci odiatori, spesso.
Come sempre per gli uomini di successo, il viale del tramonto è quello più indicativo della stoffa umana, che il lungo percorso per tanto tempo ha ammantato di lustrini. E Giulio Andreotti, simpatico o antipatico che fosse a ciascuno di noi, suoi contemporanei, ha vissuto con dignità l’uscita dalla scena dell’esistenza, dopo aver attraversato anche periodi estremamente bui. Lui stesso, che aveva tante volte ironizzato pubblicamente e privatamente sulla propria morte, aveva lasciato ai suoi una bozza di “coccodrillo” nella quale, dei suoi tre processi, scriveva: ”Come tanti altri uomini politici è stato coinvolto in “trappole giudiziarie” che ha affrontato serenamente fino alla completa ‘assoluzione’ da parte della magistratura”Dettaglio curioso – aggiunge Massimo Franco – la parola assoluzione era messa tra virgolette (e le furibonde - e anche un po' vergognose -damnatio memoriae che su di lui si sono prodotte post-mortem sono la testimonianza di quanto azzeccate fossero quelle virgolette).
Come che sia, Giulio Andreotti, nel bene e nel male, è il simbolo della cosiddetta Prima Repubblica, della quale le sue vicende, dall'alba al tramonto, sono lo specchio. Anzi, della Prima Repubblica, come scrisse la rivista di geopolitica Limes (citata nel libro di Massimo Franco) Andreotti aveva incarnato il profilo geopolitico, perché solo lui riusciva contemporaneamente a garantire sovietici, americani e preti…Faceva parte di una élite di poche decine di persone che si riconoscevano e si consultavano nel mondo quando si registravano momenti difficili. Era un club informale di interlocutori decisivi fra USA, URSS, Francia, Germania: dagli Anni Sessanta del Novecento fino alla fine della guerra fredda….
Dopo la caduta del Muro di Berlino, forse, come scrivono Caracciolo e Franco, l’intera classe politica rivelò… un serio ritardo di cultura strategicaPer questo, nell’Italia post-Andreottiana, senza veri caposaldi geopolitici, di lui non resta quasi nulla.
A me personalmente, di Andreotti uomo pubblico resta, invece, accanto alla memoria di tante sue acute e maliziose osservazioni, una memoria serena: ogni tempo ha i suoi uomini, ogni uomo ha il suo tempo.
Quel piccolo cratere quasi perfettamente circolare che si dice abbia lasciato sulla spalliera della sua poltrona di senatore a vita è una specie di non-monumento alla sua consuetudine con le attività parlamentari; ma anche una metafora del Belpaese storto, ripiegato su se stesso millimetro dopo millimetro.
Roma  29 gennaio 2019

sabato 26 gennaio 2019

27 gennaio 2019

Il giorno della memoria
(di Felice Celato)
Nella memoria delle pagine della storia, e soprattutto in quelle più tragiche e dissennate, sono iscritti moniti perenni, lontani o vicini, che, almeno ogni tanto, occorre saper leggere più che con gli occhi, con la mente e con l’anima.
Nel Giorno della Memoria, ancora una volta vi propongo di farlo con le parole di Benedetto XVI fra le lapidi di Auschwitz, durante la sua visita del 28 maggio 2006; ma, questa volta, non con quelle del papa teologo ma con quelle del papa tedesco.
Io sono qui oggi come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire [come già fece Giovanni Paolo II, figlio del popolo polacco] ”Non potevo non venire qui”. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio….
Figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominioSì, non potevo non venire qui.
Queste alcune delle altre sue parole fra le tante lapidi in tante lingue, cominciando da quelle scritte in lingua ebraica: I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo “Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello”si verificarono in modo terribile. In fondo quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando dal Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoà, volevano in fin dei conti strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte…..
Un’altra lapide, che invita a particolarmente riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo ad altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l’utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti veniva classificato come lebensunwertes Leben– una vita indegna di essere vissuta. 
Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Bendicta a Cruce: ebrea e tedesca, scomparsa, insieme alla sorella, nell’orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme al suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation– come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: “Solo il nostro Dio può salvarci. Ma se anche non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dei e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto” (Daniele, 3, 17 e sg).
 Roma 26 gennaio 2019

mercoledì 23 gennaio 2019

Letture liberali

Neo-liberismo percepito
(di Felice Celato)
L’asfalto, da noi – si sa, ci abbiamo anche brevemente scherzato qualche anno fa (Parole, parole, parole, del 20 novembre 2014) – è sempre “reso viscido dalla pioggia”; come il silenzio è sempre “assordante”, o i baroni inamovibili”, le tragedie "annunciate” o la nostra costituzione “la più bella del mondo”. Amiamo i polifonemi complessi, dove i suoni in cui si articolano i sintagmi perdono la loro significanza a vantaggio di una corriva banalità del parlarsi per sentirsi parlare.
Anche il liberismo non si sottrae alla regola, sicché lo sentiamo sempre nominare come “neo-liberismo sfrenato”. Bene: a questo tema (direi: del liberismo percepito e di quello reale) è dedicato il recente libro di Alberto Mingardi (direttore dell’Istituto Bruno Leoni), dal lungo ed esplicito titolo La verità, vi prego, sul neoliberismo – Il poco che c’è, il tanto che manca (Marsilio, 2019).
Dico subito che la lettura si raccomanda particolarmente agli uomini di poca fede…liberale (ma, ovviamente, di adeguata sensibilità culturale), come… viatico per un cammino di conversione. 
Nulla meglio di questa citazione dal testo di Mingardi descrive il contenuto del libro:Questo libro è scritto per mettere ordine: le parole sono importanti, vediamo di usarle bene. Per metà, le pagine [del testo]….sono dedicate al poco o tanto neoliberismo che abbiamo conosciuto. Anzitutto cercherò di distinguere fra il neoliberismo “in senso proprio”, cui si deve il cosiddetto miracolo economico tedesco degli anni cinquanta e di cui proverò a mettere a fuoco gli elementi di originalità, e neoliberismo “in senso lato”, la “leggenda nera”. Proverò quindi a comprendere quanto neoliberismo ci sia nella globalizzazione e quale è stato l’effetto, sul mondo in cui viviamo, dell’apertura dei mercati e dell’intensificarsi degli scambi. Per l’altra metà, il libro si confronta con gli argomenti dei nemici del neoliberismo, in particolare di quelli che desiderano un maggior impegno dello Stato in economia e di quelli che vorrebbero presidiare con ancora maggior decisione le frontiere. Prenderò in esame l’idea che ci voglia “più Stato”, perché senza di esso l’economia di mercato è una specie di maionese impazzita, incapace persino di produrre quell’innovazione diffusa che dovrebbe essere il suo tratto distintivo. Infine, tenterò di ragionare su un tema sul quale ragionare non dovrebbe essere facoltativo: l’immigrazione. La questione è talmente pervasiva, nel dibattito contemporaneo, che costringe a interrogarsi su come stanno cambiando le forze politiche, le preferenze degli elettori, le furbizie dei leader.
Dovrebbe bastare per suscitare la curiosità del lettori…convertendi; per noi da sempre liberali (plurale maiestatis, cioè per me), il libro è stato di conforto in un periodo molto avaro di conforti intellettuali: in fondo il liberismo, nelle forme che la storia e il pensiero hanno reso compatibili col secolo che viviamo (Mingardi fa un’ampia digressione sul liberalismo storico e sull’origine del neoliberismo), è una forma di umanesimo che chiede di tenacemente  provare, nella maniera inevitabilmente imperfetta e manchevole di tutte le cose umane, a rendere un po' più libere e responsabili le persone.
Per contro, all’origine dell’ubiqua.. critica del neoliberismo… c’è, forse, come scrive Mingardi, un’ostilità che precede la comprensione; e anche l’umanissimo desiderio di trovare un colpevole per i nostri problemi: e c’è la furbizia tutta politica di indicarlo nelle forze impersonali dell’economia; il “neoliberismo sfrenato”, appunto, o il mercato o i mercati: poco importa che nessuno abbia mai visto un “mercato” andare a votare o che i famelici “mercati” non abbiano una regia o un capo (se non nella fantasia malata di qualche inveterato complottista).
O forse all’origine dell’ubiqua... critica del neoliberismo…. c’è l’illusione percettiva che Mingardi descrive riprendendo un concetto di Josè Ortega y Gasset (da La ribellione delle masse): Venuti al mondo in una moderna società industriale, finiamo per credere che la civiltà in cui siamo nati sia «naturale». Diventiamo qualcosa di simile al «bambino viziato della storia umana, l’erede che si comporta esclusivamente come erede», convinto, per parafrasare i tre quarti dei politici contemporanei, che l’unico problema sia distribuire correttamente una ricchezza che miracolosamente continuerà ad essere prodotta; e dunque perché preoccuparsi di come produrla?
Concludo la segnalazione: il testo è lungo e appassionato. Se ne consiglia la lettura solo agli insoddisfatti del presente; gli altri possono farne a meno.
Roma  23 gennaio 2019











venerdì 18 gennaio 2019

Mayday

May’s day
(di Felice Celato)
Come sanno tutti quelli che si sono un po' occupati di trasporti, l’espressione mayday è convenzionalmente usata in tutto il mondo per segnalare una richiesta urgente di aiuto da parte di una nave o di un aereo in grave difficoltà (pare che la parola sia un’anglicizzazione del francese m’aidez, cioè aiutatemi!). 
Ma a me è tornata in mente in questi giorni, nella forma del giuoco di parole usato come titolo di questo post, mentre seguivo le convulsioni Inglesi sulla famosa Brexit, provando, nello stesso tempo, a restare distaccato dalla sua cronaca (e dalle inevitabili tifoserie intellettuali che la vicenda può suscitare dentro ciascuno di noi; ed io, lo sanno i miei lettori, in fatto di Europa, tifo Europa!). 
Esercizio – lo riconosco – difficile, tanto se ne parla e se ne legge, spesso con simpatie e antipatie che possono far velo alla valutazione delle cose; ma esercizio utile, se può servire a trarre elementi di riflessione dalle difficoltà nelle quali si è cacciato il Regno Unito (e la sua premier Theresa May) per dar corso ad una scelta che – a mio parere – è, ad un tempo, popolare e dissennata.
A coloro che – inossidabili cultori del mito del popolo – trovino scandalosa la sola giustapposizione dell’aggettivo dissennata al mito fondante di ogni democrazia (il popolo, detentore supremo di giudizio e sovranità), tornerei a raccomandare una lettura qui più volte segnalata (Il “crucifige” e la democrazia, di Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, 2007) che, mi pare, fa saggia giustizia del mito (nulla è tanto insensato… quanto la divinizzazione del popolo di cui è espressione la massima Vox Populi Vox Dei, una vera e propria forma di idolatria politica) e fonda invece (o forse solo rispolvera e rinomina) un principio di civile ragionamento al riguardo (la democrazia critica), che può tornarci assai utile avere presente, specie in questi tempi in cui da noi si discutono riforme della Costituzione nel senso di una maggiore "democrazia diretta". Comunque di Zagrebelsky e della sua democrazia critica abbiamo già parlato (vedasi post Letture del 19 settembre 2013) e non è il caso di tornarci sopra ancora.
Piuttosto mi preme mettere in evidenza come ormai vada facendosi strada la tesi che, fra i disastri del referendum Exit or Remain del 2016, ci sia – oltre che il risultato concreto – anche quello della difficile praticabilità di un ripensamento nelle stesse forme (un nuovo referendum): insomma – così scrivono molti osservatori assai più competenti di me in questo genere di cose (per tutti vedansi Fisher e Taub su The Interpreter del NYT: The big risks of a second Brexit referendum) – sembra che l’unica via d’uscita dal May’s Day sia una soluzione politica, sotto forma di ribaltamento della maggioranza di governo (nuove elezioni) ovvero di ritessitura del negoziato con l’Europa; nell’assunto – nel primo caso – che un nuovo governo se la senta di esplicitamente candidarsi per “ribaltare” questa famosa volontà del popolo, come che sia stata, a suo tempo, malauguratamente espressa.
Non mi avventuro, ovviamente, in previsioni; ma il messaggio che – spero – anche noi se ne possa trarre, è che il referendum, sia su cose serie sia su cose futili (come si prospetta, ovviamente, da noi) in qualche modo “brucia” (per carità: in forma apparentemente democratica!) persino la possibilità (ed il beneficio) della revocabilità e della rivedibilità di ogni decisione politica, assumendo (follemente!) un significato… sacrale  che gli è totalmente improprio: nel migliore dei casi, il popolo comprende il quesito che gli viene posto, nella forma in cui gli viene posto; e ne esplora i significati secondo quello che gli viene detto. Dice ottimamente Nadia Urbinati (Columbia University), citata da The Interpreter: “un referendum non è una forma di democrazia diretta: la si usa quando un sistema rappresentativo decide che desidera avere il supporto del popolo su una cosa che ha già deciso di fare".
Eh, sì….bisogna che qualcuno abbia deciso che cosa fare… questo è il problema, sia che si tratti di Brexit sia che si tratti di TAV. 
Speriamo che anche da noi non giunga il tempo di un sofferto Mayday (m’aidez!)!
Roma 18 gennaio 2019

lunedì 14 gennaio 2019

Letture della domenica

 Scie chimiche esistenziali
(di Felice Celato)
Dicevo, sabato, che avrei qui riferito, a lettura ultimata, le mie impressioni di lettore (non di critico letterario, quale non sono!) sul libro di Michel Houellebecq Serotonina (La Nave di Teseo, 2019) appena uscito e da molte parti presentato come una specie di evento profetico-letterario.
Dunque, piuttosto che recarmi a Ciampino per seguire in diretta, fra ministri e militari, l’evento dell’anno (il rimpatrio di un latitante), eccomi qui a buttare giù qualche riga di commento, dopo aver dedicato alla lettura l’intero pomeriggio e la serata di ieri (per il conforto del mio oculista: l’edizione è tipograficamente esemplare!).
Dico subito che si tratta di un romanzo di agevole e avvincente lettura, ancorché, in fondo, la storia narrata sia quella di una incurabile depressione con sfumati pensieri suicidi (un classico della letteratura, del tipo del francesissimo e più problematico Lo straniero di Albert Camus, per non andare lontani): l’io narrante vive la sua esistenza sentimentale come il fallimento di chi non è riuscito a stabilizzare l’unico rapporto d’amore che  ha intensamente vissuto e che gli resterà sempre incollato nell’animo; e scambia la ricerca di un equilibrio farmacologico con la rinuncia alla sessualità che pure ha caratterizzato molte delle sue storie superficialmente sentimentali. I vaghi accenni alle tematiche religiose dell’esistenza, soprattutto quelle dell’ultima pagina, ancorché forse estranei alle corde dell’autore, mi sono tuttavia parsi di qualità, nel contesto narrato.
Si potrebbe pensare – non senza ragione – che si tratti di una lettura inadatta al gloomy landscape di cui parlavamo giusto sabato scorso (e forse anche al blue mood che da qualche tempo ci accompagna); ma devo dire che la scrittura di Houllebecq ha anche delle venature umoristiche che stemperano la pesantezza dell’intensa introspezione dell’io narrante. Alcuni potrebbero – anche qui: non senza ragione – sentirsi disturbati dal linguaggio sfacciatamente esplicito col quale l’io narrante ci relaziona, con minuzioso dettaglio, sulla sua complessa vita sessuale; io non ne faccio una questione. 
Detto ciò, francamente non credo che il libro di Houellebecq abbia le caratteristiche che ho visto attribuirgli da qualche critico, forse memore del best seller dello stesso autore Sottomissione, del quale abbiamo parlato qui diverse volte nel 2015: gli eventi esterni alla lunga introspezione (le contraddizioni fra politiche agricole comunitarie e aspettative degli agricoltori francesi, qualche accenno al connesso tema della globalizzazione, il deserto relazionale urbano, etc) non mi sono parsi centrali, anche se in un caso (quello delle dimostrazioni degli agricoltori) narrativamente non irrilevanti.
In sintesi estrema: una lettura non banale e forse anche gradevole; non direi un libro memorabile.
Roma, 14 gennaio 2019 


sabato 12 gennaio 2019

Gerica

Gloomy landscape
(di Felice Celato)
Gerica, ognuno lo capisce, non è la moglie di Gerico. Infatti Gerico non era un uomo ma un villaggio vicino a Gerusalemme, proprio quello verso il quale si dirigeva il buon Samaritano  della  parabola evangelica, nota anche ai laici più incalliti (Noi paulotti ne ricordiamo anche le coordinate evangeliche: Lc.10, 30-37: un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico….Invece un Samaritano…passandogli accanto…ne ebbe compassione...etc).
Gerica è invece una parola da me inventata come scramble sillabico di una sigla  (Carige) che in questi giorni è sulla bocca di molti (sicuramente di troppi) per le sfortunate vicende di una importante banca locale (di interesse quindi senz’altro meta-regionale) del cui destino si discute con la consueta baldanza che si risolve nel solito insopportabile scramble concettuale. Non sono, cioè, solo le sillabe che vengono strapazzate come fossero un uovo; sono proprio i “pensieri” che appaiono strapazzati (scrambled, appunto), partim per una diffusa, soverchiante sconoscenza della materia, partim per la necessità “politica” di comunicare nuovi slogan, che mettano d’accordo i precedenti slogan (di senso contrario) con le esigenze del fare ciò che – bene o male, forse più male che bene –  si è fatto in passato in analoghi casi.
Non è il caso di entrare, qui, nel merito tecnico della vicenda (su qualche giornale sono state scritte anche cose sensate al riguardo): se non la verità (da me) tanto sperata per l’anno ormai in corso, almeno alcuni esercizi di buon senso sarebbero, però, alla portata dei più (e, credetemi, sarebbero anche semplici!). Ma non sembra ci sia verso di promuoverli, questi esercizi; meglio strapazzare l’uovo del buon senso e della realtà, perché a berlo intero rivelerebbe di non essere proprio fresco! E allora, tanto vale fare la fiera delle parole, Gerica, Cageri o Carige, salvataggio, nazionalizzazione, bail-inbail-out, operazione di mercato, lista dei favori, etc. Poveri noi!
Per nostra maggior sfortuna, intanto, le cose economiche del nostro paese non vanno meglio; e ci si aspetta per l’ultimo trimestre dell’anno appena ultimato un altro risultato negativo, dopo quello piatto del trimestre precedente. [By the way: quando l’economia non va bene non possono certo andare bene le banche che all’economia somministrano il “carburante” finanziario; N.B.: pochi mesi fa, gli NPL, i cosiddetti Non Performing Loans ancora in circolazione, cioè i crediti bancari fortemente deteriorati, erano stimati in oltre 250 miliardi di €, qualcosa come il 15 % del PIL. E. di questi, una trentina netta ancora nei bilanci delle banche, senza contare quelli in via di deterioramento. Chiusa la parentesi.]
Mi aspetto, dunque, per quando uscirà il dato del quarto trimestre 2018 (e quindi per l’intero anno decorso), il consueto scramble verbale sotto il quale seppellire un altro pezzo di buon senso e di percezione del reale. L’economia – in Italia, in Europa o nel mondo – è una macchina che per camminare ha bisogno di quella miscela di certezze e di speranze che si chiama fiducia nel futuro; e francamente, a breve, non se ne vedono i fondamenti, almeno nel nostro mondo occidentale: gli Usa non li capisce più nessuno (tranne forse quelli che hanno positivamente votato per Trump e che ancora non se ne siano pentiti); l’Europa attende col fiato sospeso le elezioni come se fossero l’ordalia nella quale si decide l’equilibrio fra le forze centripete e quelle centrifughe; l’Italia – per quel poco che rileva nell’economia del mondo – sembra affannata più che mai nel disfare e nel gridare piuttosto che nel fare, nell’affettare la torta piuttosto che nell’impastarne una più grande. 
In questo quantomeno sospeso contesto, pur con tutte i necessari distinguo, chi – nel nostro mondo Occidentale – dovrebbe spingere la produzione, il consumo e la crescita?
Roma 12 gennaio 2019

P.S.: E, per quanto miseramente mi concerne, dove potrei trovare argomenti non deprimenti da discutere coi miei amici? Per distrarmi, sto leggendo il nuovo romanzo di Houellebecq: ho appena cominciato e spero che valga la pena riferirvene presto.



domenica 6 gennaio 2019

Diatribe impolitiche

 Sesterzi e carote
(di Felice Celato)
Il sesterzio, come molti di noi ricorderanno, era un’antica moneta romana, inizialmente d’argento, poi, via via, di una sempre più vile lega di ottone. Del resto, anche il suo valore nel tempo cambiò, soprattutto in periodo imperiale. Ma ora il tema numismatico o monetario non ci interessa; ci basta avere presente che i sesterzi erano, per dirlo nel corrente romanesco, sòrdi, cioè denaro.
Tutti quelli che furono studenti ai miei (remoti) tempi, hanno sicuramente giocato con una specie di storiella, fondata – come tutte le storielle – su un po' di verità ma destinata soprattutto a far sorridere. La storiella era quella di un tribuno della plebe (a Roma – quella antica, beninteso – il popolo si chiamava plebe e aveva anche i suoi espliciti tribuni) che, facendosi interprete dei bisogni dei suoi rappresentati, si rivolgeva a Cesare dicendo: “Cesare, il popolo chiede sesterzi!”. Al che – voleva la storiella studentesca – Cesare, che forse già aveva un gusto tutto romanesco delle battute, fece finta di capire “Cesare, il popolo chiede se sterzi” e rispose: “No, vado dritto!” (del resto questa del tirar dritto è sempre stata una parola d’ordine dei veri leaders).
La parte autentica della storiella forse stava tutta nell’eterna esigenza del popolo  di vedere concretamente affrontate le proprie vitali e rispettabilissime esigenze, se del caso nella forma più gratuita. Si sa, infatti, che nel proprio applauditissimo testamento, Cesare lasciò al popolo in armi – le sue legioni – una cospicua somma di denaro, si dice 300 sesterzi a ciascun legionario. 
Ma, mi dice un amico che di politica se ne intende assai più di me, se anche oggi le esigenze del popolo non si manifestano in forma così diretta (beh! diciamo: non sempre!), tuttavia è certo che ogni buon politico, quand’anche, per poco saggia ipotesi, si sia orientato a “bastonare” il popolo con dure verità pensando di fargli del bene, deve purtuttavia assicurargli almeno un po' di “carote” (secondo l’antico adagio che il somaro si fa camminare col bastone e con la carota!). 
Intendiamoci: ho sempre considerato snob quelli che chiamano il popolo “bue” (o anche “bove”, immemori del Carducciano rispetto per il bove: t’amo, pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, etc); ma anche considerarlo un asino (o addirittura un coniglio, in contemplazione della nota ingordigia di carote dei conigli) non mi parrebbe rispettoso per il popolo!
E poi: nessuno potrebbe sognarsi di fare come Cesare e di regalare sesterzi alle legioni sue sostenitrici, attingendo – come Cesare – a sostanze sue proprie (comunque accumulate). Oggi le carote che si ritenesse necessario somministrare per conseguire il successo democratico sarebbero comunque “carote” fondate su futuri sesterzi di altri (i famosi prestatori di denaro alla Repubblica, già carica di debiti).
E dunque, dimentichiamoci delle “carote” somministrate come veri sesterzi. 
Eh già! direbbe il mio amico; ma ci sono anche le “carote ideologiche” o anche le semplici “promesse di carote”! Insomma quegli sweeteners che almeno addolcirebbero la durezza delle verità che l’incauto politico volesse propinare al popolo! Per esempio, chessò, l’eliminazione della povertà (o la creazione di posti di lavoro) per decreto; la cancellazione di tutte le “pacchie” degli “altri”; l’omni-provvidente, benefica signoria intra-confinaria che porterà sviluppo e sicurezza identitaria; l’avvicinamento alla giovinezza della pensione, quand’anche si invecchi più tardi; etc. etc. etc..
No, caro amico mio, sempre saggio e realista! Non mi rassegnerò, quand’anche mi sembrasse politicamente utile, a considerare il popolo bove o asino o coniglio; magari mi sbaglio, ma sono troppo appassionato di un popolo di uomini (perché no? liberi e forti) che hanno solo bisogno di banali verità; e che solo da queste attinge vigore. Per questo continuo a sperare che quello appena iniziato sia un anno di verità.
Roma, domenica 6 gennaio, festa dell’Epifania.

giovedì 3 gennaio 2019

Letture

…..in qualche modo classiche
(di Felice Celato)
La prima buona notizia dell’anno per me è - ogni anno – che il 1° gennaio non escono i giornali; così, fra fine anno e ieri, mi sono ricavato ben 30 ore di (vera) lettura ininterrotta (praticamente non ho fatto altro che leggere!), felice dei due bei libri che ho avuto fra le mani.
Il primo (di Elsa Morante: La storia, Einaudi, 2014) è un classico della letteratura contemporanea Italiana che, fino ad oggi, avevo trascurato, soprattutto in ragione della intensa antipatia per il milieu politico-culturale dell’autrice; a lettura ultimata, riconosco però che La storia ha una dignità narrativa e letteraria notevole: frutto di una certa bulimia narrativa dell’autrice (oltre 650 dense pagine di narrazione sono una prova alla quale difficilmente reggono i miei approcci alla narrativa), il libro racconta tuttavia con penna molto felice la storia commovente e drammatica di una donna e dei suoi due figli stritolati dagli eventi della Roma del periodo 1941-47. Trattandosi di un libro che, per la maggior parte dei miei colti lettori (sicuramente meno prevenuti di me), è forse un classico già ampiamente noto, non spenderò ulteriori parole per raccomandarlo a chi ama il genere del romanzo storico, efficacemente e programmaticamente incarnato da questo ottimo ma lunghissimo racconto.
Sul secondo libro (anch’esso un romanzo storico), invece, mi va di spendere qualche parola in più, perché è un’opera prima di recentissima pubblicazione: di Antonella Prenner, Tenebre – L’ultima disperata battaglia di Cicerone,(SEM, 2018); e perché è, a mio giudizio, un piccolo capolavoro di narrativa storico-letteraria, esaltato da una prosa colta e raffinata, densa di venature elegiache e di memorie di cultura classica, sicuramente degne di essere di tanto in tanto rispolverate. 
Il racconto (di un romanzo trattasi, non ostante il suo stretto radicamento nelle vicende storiche del personaggio Cicerone, sicuramente interessante e per molti aspetti modernissimo) è costituito da una lunga confessione (oltre 360 pagine) che Cicerone rende all’amatissima figlia defunta, Tullia, sulle tormentate vicende politiche che seguirono all’assassinio di Cesare (nelle famose Idi di Marzo del 44 a.C.) fino al 6 dicembre 43 a.C., quando anche Cicerone viene assassinato per incarico di Marco Antonio. 
Cicerone è un membro del Senato, capo morale – riconosciuto come tale – dell’ala conservatrice e repubblicana della società Romana del tempo, uno straordinario e vigoroso oratore di raffinata cultura ed un politico che ha reso molti servigi alla repubblica, tanto da meritarsi l’appellativo di padre della patria. Come senatore, non può che nutrire estreme diffidenze verso ogni forma di tirannia, quand’anche supportata dal popolo (e dalle legioni); e ciò, ancorché Cicerone coltivi in cuor suo opinioni assai diverse sui vari aspiranti alla tirannia del periodo: da Cesare (amato per la sua grandezza, non ostanti le sue riprovate ambizioni di tiranno ), a Marco Antonio (disprezzato profondamente come uomo e detestato come aspirante alla tirannia), a Ottaviano (amato come giovane erede di Cesare e come alternativa ad Antonio ma, anche lui, alla fine, spietato mercanteggiatore di uomini per conseguire il potere).
Come consumato politico e uomo di pensiero, Cicerone non nasconde a sé stesso (e nemmeno alla tenera figlia cui si rivolge) i limiti umani del suo carattere, amante degli onori e delle vigorose battaglie polemiche ma anche timoroso di sé e delle proprie debolezze e fors’anche pavido difronte al pericolo fisico. Ma non esita a riconoscersi un indomito amore per la repubblica e per la res-publica e una viscerale avversione per chi vuole farsene princeps.
L’autrice del libro, prima che recente romanziera, è anche una profonda conoscitrice del mondo e della cultura latina; ma soprattutto sembra aver tratto da queste sue professionali esperienze anche la prosa elegante e a tratti sontuosa, di cui accennavo all’inizio e che rende la narrazione più che piacevole.
Roma  3 gennaio 2019

P.S.: Buon anno a tutti!