sabato 26 gennaio 2019

27 gennaio 2019

Il giorno della memoria
(di Felice Celato)
Nella memoria delle pagine della storia, e soprattutto in quelle più tragiche e dissennate, sono iscritti moniti perenni, lontani o vicini, che, almeno ogni tanto, occorre saper leggere più che con gli occhi, con la mente e con l’anima.
Nel Giorno della Memoria, ancora una volta vi propongo di farlo con le parole di Benedetto XVI fra le lapidi di Auschwitz, durante la sua visita del 28 maggio 2006; ma, questa volta, non con quelle del papa teologo ma con quelle del papa tedesco.
Io sono qui oggi come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire [come già fece Giovanni Paolo II, figlio del popolo polacco] ”Non potevo non venire qui”. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio….
Figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominioSì, non potevo non venire qui.
Queste alcune delle altre sue parole fra le tante lapidi in tante lingue, cominciando da quelle scritte in lingua ebraica: I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo “Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello”si verificarono in modo terribile. In fondo quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando dal Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoà, volevano in fin dei conti strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte…..
Un’altra lapide, che invita a particolarmente riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo ad altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l’utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti veniva classificato come lebensunwertes Leben– una vita indegna di essere vissuta. 
Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Bendicta a Cruce: ebrea e tedesca, scomparsa, insieme alla sorella, nell’orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme al suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation– come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: “Solo il nostro Dio può salvarci. Ma se anche non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dei e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto” (Daniele, 3, 17 e sg).
 Roma 26 gennaio 2019

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