(di Felice Celato)
Il sesterzio, come molti di noi ricorderanno, era un’antica moneta romana, inizialmente d’argento, poi, via via, di una sempre più vile lega di ottone. Del resto, anche il suo valore nel tempo cambiò, soprattutto in periodo imperiale. Ma ora il tema numismatico o monetario non ci interessa; ci basta avere presente che i sesterzi erano, per dirlo nel corrente romanesco, sòrdi, cioè denaro.
Tutti quelli che furono studenti ai miei (remoti) tempi, hanno sicuramente giocato con una specie di storiella, fondata – come tutte le storielle – su un po' di verità ma destinata soprattutto a far sorridere. La storiella era quella di un tribuno della plebe (a Roma – quella antica, beninteso – il popolo si chiamava plebe e aveva anche i suoi espliciti tribuni) che, facendosi interprete dei bisogni dei suoi rappresentati, si rivolgeva a Cesare dicendo: “Cesare, il popolo chiede sesterzi!”. Al che – voleva la storiella studentesca – Cesare, che forse già aveva un gusto tutto romanesco delle battute, fece finta di capire “Cesare, il popolo chiede se sterzi” e rispose: “No, vado dritto!” (del resto questa del tirar dritto è sempre stata una parola d’ordine dei veri leaders).
La parte autentica della storiella forse stava tutta nell’eterna esigenza del popolo di vedere concretamente affrontate le proprie vitali e rispettabilissime esigenze, se del caso nella forma più gratuita. Si sa, infatti, che nel proprio applauditissimo testamento, Cesare lasciò al popolo in armi – le sue legioni – una cospicua somma di denaro, si dice 300 sesterzi a ciascun legionario.
Ma, mi dice un amico che di politica se ne intende assai più di me, se anche oggi le esigenze del popolo non si manifestano in forma così diretta (beh! diciamo: non sempre!), tuttavia è certo che ogni buon politico, quand’anche, per poco saggia ipotesi, si sia orientato a “bastonare” il popolo con dure verità pensando di fargli del bene, deve purtuttavia assicurargli almeno un po' di “carote” (secondo l’antico adagio che il somaro si fa camminare col bastone e con la carota!).
Intendiamoci: ho sempre considerato snob quelli che chiamano il popolo “bue” (o anche “bove”, immemori del Carducciano rispetto per il bove: t’amo, pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, etc); ma anche considerarlo un asino (o addirittura un coniglio, in contemplazione della nota ingordigia di carote dei conigli) non mi parrebbe rispettoso per il popolo!
E poi: nessuno potrebbe sognarsi di fare come Cesare e di regalare sesterzi alle legioni sue sostenitrici, attingendo – come Cesare – a sostanze sue proprie (comunque accumulate). Oggi le carote che si ritenesse necessario somministrare per conseguire il successo democratico sarebbero comunque “carote” fondate su futuri sesterzi di altri (i famosi prestatori di denaro alla Repubblica, già carica di debiti).
E dunque, dimentichiamoci delle “carote” somministrate come veri sesterzi.
Eh già! direbbe il mio amico; ma ci sono anche le “carote ideologiche” o anche le semplici “promesse di carote”! Insomma quegli sweeteners che almeno addolcirebbero la durezza delle verità che l’incauto politico volesse propinare al popolo! Per esempio, chessò, l’eliminazione della povertà (o la creazione di posti di lavoro) per decreto; la cancellazione di tutte le “pacchie” degli “altri”; l’omni-provvidente, benefica signoria intra-confinaria che porterà sviluppo e sicurezza identitaria; l’avvicinamento alla giovinezza della pensione, quand’anche si invecchi più tardi; etc. etc. etc..
No, caro amico mio, sempre saggio e realista! Non mi rassegnerò, quand’anche mi sembrasse politicamente utile, a considerare il popolo bove o asino o coniglio; magari mi sbaglio, ma sono troppo appassionato di un popolo di uomini (perché no? liberi e forti) che hanno solo bisogno di banali verità; e che solo da queste attinge vigore. Per questo continuo a sperare che quello appena iniziato sia un anno di verità.
Roma, domenica 6 gennaio, festa dell’Epifania.
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