Giuda
(di
Felice Celato)
I
buoni cristiani - dice il nostro più volte citato predicatore - durante la
Settimana Santa rileggono e meditano la Passione di Nostro Signore Gesù Cristo;
i più raffinati, aggiungerebbe un mio amico, lo fanno mentre scorrono le note
della Passione secondo Matteo di J.S. Bach.
Io,
che raffinato non sono, mi permetto tuttavia, nel mio piccolo, anch’io, di
raccomandare questo pio esercizio prima di tutto ai credenti, perché i racconti della Passione sono il cuore
della Rivelazione ed un testo di perenne edificazione; ma anche a chi
pio non è, per almeno due ragioni. Prima di tutto perché non fa certo male
anche ai laici rispolverare ogni tanto il pilastro centrale della nostra
civiltà (che, con buona pace dei Francesi, è sicuramente Giudaico-Cristiano);
poi perché i racconti della Passione sono, comunque, uno straordinario vaso di paradigmi senza tempo, una
specie di bassorilievo del mondo e dell'uomo e dei caratteri umani, dove tutto
ha il suo nome e la sua connotazione per i secoli dei secoli (come dice Zagrebelsky,
anche citando I fratelli Karamazov, nel suo straordinario libro Il
Crucifige e la democrazia, già segnalato su questo blog).
E, in
effetti, ci è capitato altre volte, sempre su questo blog, di attingere
a questo vaso, soprattutto riferendoci al più enigmatico dei personaggi
della Passione, Ponzio Pilato, affacciandoci proprio sul suo modernissimo
enigma (Che cos'è la verità?) e sul suo paradosso democratico (Di questi due, chi volete che io
rimetta in libertà per voi, Gesù o Barabba?). Oggi vorrei farlo riferendomi
al più oscuro di tutti i personaggi della Passione, Giuda, quell'anima là sù
c'ha maggior pena, come dice Dante che lo pone in bocca a Lucifero nello
sprofondo del XXXIV canto dell'Inferno, come traditore del Salvatore.
Giuda
è senz'altro il più oscuro dei personaggi della Passione perché, in fondo, pur
essendo funzionale al percorso di essa, mai abbiamo conosciuto la vera
motivazione del suo tradimento: tradì solo per denaro? Se sì, perché si pentì
fino al punto da restituire i trenta denari gettandoli davanti ai sommi
sacerdoti? O, invece, si fece dare del denaro per un tradimento che aveva altre
motivazioni? Era, magari, un agente provocatore di un messianismo politico,
tanto atteso nell’Israele di quei tempi? Il tema è controverso e, fra l'altro,
da specialisti di esegesi quale certo io non sono; e tocca anche sensibilità
ebraiche, ovviamente a disagio con questa eponima identificazione del
traditore. Alcuni hanno visto persino nel suo secondo nome (Iscariota) le
tracce di una sua affiliazione agli zeloti, l’ala militante dell’ostilità verso
i Romani. Io mi sono affezionato a questa spiegazione, che, in fondo, rende
conto anche di quello straordinario intreccio di fraintendimenti malevoli che
sta alla base dell'intero processo a Gesù (basti pensare alla famosa scritta, I.N.R.I., fatta appendere sulla croce da Pilato, quod scripsi, scripsi).
Dunque
un traditore con motivazioni politiche: la piega che aveva preso la
predicazione di Gesù (Il mio regno non è di questo mondo) non era
destinata a piacere a coloro che, sull'onda di una concezione politica del
Messia, avevano riposto in Gesù la speranza della liberazione dal giogo Romano
e che, magari, avevano provato ad infiltrarsi nel suo più stretto entourage
per, in qualche modo, tentare di governare la forza dirompente della Sua
predicazione.
Così,
lungo questo crinale interpretativo, mi pare di scorgere un ulteriore
insegnamento, come è proprio di una Scrittura Sacra, un insegnamento, forse
laterale, che viene perfino dalla figura di Giuda e stavolta indirizzato a noi
di cultura religiosa; un insegnamento, direi, come sempre perenne: mai
utilizzare la religione per fini politici; né forgiando croci a falce e
martello, come pure ha fatto qualche cacicco sud-Americano, né per motivare
teocrazie di nessun genere, né per farne bandiera di liberazione mondana, né
per motivare approssimate teorie economiche. Il Suo regno non è di questo
mondo. In questo mondo, nelle convulsioni della storia, noi, che a quel Suo
regno aspiriamo (fra il già e il non ancora), abbiamo
il dovere di testimoniarne la speranza che è in noi con atti concreti che rendano conto di
essa; il resto è affidato alla ragione dell'uomo (e alle sue "tecniche"); una ragione, però, che deve fare i conti col suo
fondamento; e la ragione (il logos,
per dirla col Vangelo di Giovanni) è – insieme all’amore – il primo attributo
di Dio: in principio era il logos.
Roma,
11 aprile 2017
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