Il popolo ha
sempre ragione?
(di Felice Celato)
Torno,
con riluttanza, sull’esito del referendum,
prendendo lo spunto da un articolo del prof. Francesco Lucrezi che ho letto
sulle pagine del quotidiano dell’ebraismo italiano (Pagine ebraiche, appunto) che ricevo grazie all’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane e che leggo sempre con grande interesse (del resto
la mia passione per la cultura ebraica è nota a tutti i lettori di questo blog).
Bene:
il professor Lucrezi, che si qualifica come storico (presumo del diritto,
giudicando da alcune sue citazioni), mette in fila una serie di civilissime
considerazioni sull’esito referendario che condivido larghissimamente ( e non
solo perché anch’io – come lui dice di aver fatto – ho votato per il Sì); fra
l’altro condivido anche tutti i suoi distinguo sulla presumibile composizione “culturale”
del fronte del No. C’è però una frase con la quale Lucrezi prende tristemente
atto del risultato (a lui come a me sgradito) che assolutamente non mi convince;
anzi – per la verità – la ritengo pericolosa foriera di gravi fraintendimenti
[NB: non starei qui a ragionarne se non considerassi il resto dell’articolo un
contributo intelligente alla riflessione]: in
democrazia, scrive Lucrezi, il popolo sovrano ha sempre ragione, chi ha
perso – anzi straperso – deve solo prenderne atto. Il mio (radicale) disaccordo
attiene alla prima frase del periodo: non credo assolutamente che in democrazia
il popolo sovrano abbia sempre ragione! Credo, invece, che in democrazia il
popolo sovrano abbia sempre la parola definitiva; il che non vuole affatto dire
che abbia ragione, se avere ragione vuol dire assumere la decisione giusta. E
ciò per almeno due ordini di motivi (a mio avviso assai difficili da mettere in
dubbio). Anzitutto per un motivo logico: se il popolo sovrano avesse sempre
ragione, con la democrazia diretta avremmo trovato una sorta di “pietra
filosofale”, il sistema politico perfetto perché esente da errore (e mi pare
arduo anche solo l’immaginarlo). Poi per un motivo di evidenza storica; credo
inutile fare qui la rassegna delle follie perpetrate dalla volontà del popolo
sovrano (in dimensione nazionale o locale, parziale o totalizzante): dovrei
cominciare – l’ho già fatto su questo blog
– partendo dal famoso “crucifige”,
per arrivare fino ai giorni nostri (anche qui mi esento da esemplificazioni; di
almeno una – il referendum sulla
gestione della distribuzione dell’acqua – c’è anche traccia, sia pure del
lontano giugno 2011, su questo blog).
La verità è – almeno a me così sembra – che la democrazia è solo un metodo (e finora
non se n’è trovati di migliori ) per formare una volontà statuale, senza la
pretesa che tale volontà statuale sia esente dall’errore, che è proprio
dell’umano sia in dimensione individuale che in dimensione collettiva.
A
queste considerazioni ne affiancherei un’altra – credo di poter dire meno
pacifica delle precedenti – attinente alla dinamica della formazione della
volontà del popolo sovrano; una
dinamica che, nel contesto mediatico-emotivo in cui viviamo, aggiunge
inquietudini ad ogni pretesa di certezze circa “l’infallibilità” democratica. Proprio
uno dei più autorevoli supporter del
No all’ultimo referendum, Gustavo
Zagrebelsky, ha dedicato assai acute riflessioni (*) all’analisi degli approcci
culturali alla democrazia (dal dogmatico al critico passando per lo scettico)
dalla quale emerge la necessità di un “correttivo culturale” alla democrazia tout court, costituito precisamente
dalla democrazia critica: un regime inquieto, circospetto, diffidente
nei suoi stessi riguardi, sempre pronto a riconoscere i propri errori, a
rimettersi in causa, a ricominciare da capo, un regime che si preclude le opere grandiose e terribili
della verità e della forza; un metodo
per la ricerca delle soluzioni che assume la fallibilità degli uomini e la loro
limitatezza, un atteggiamento dello
spirito aperto all’ottimismo ma non chiuso al pessimismo, una sorta di
tensione al meglio e di insoddisfazione rispetto all’esistente. La folla che gridava il “crucifige” – annota Zagrebelsky che utilizza il
processo a Gesù come uno straordinario vaso di paradigmi e non come il
testo teologico basilare del Nuovo Testamento – era esattamente il contrario di quel che la democrazia critica
presuppone: aveva fretta, era atomistica ma totalitaria, non aveva né
istituzioni né procedure, era instabile, emotiva e quindi estremistica e
manipolabile….una folla terribilmente simile al ‘popolo’ al quale ‘la
democrazia’ potrebbe affidare le sue sorti nel futuro prossimo. E dunque nulla, per la democrazia critica, è tanto
insensato quanto la divinizzazione del popolo di cui è espressione la massima vox
populi, vox Dei, una vera e propria forma
di idolatria politica.
Roma
7 dicembre 2016
(*)Il
libro si intitola Il “crucifige” e la
democrazia, Einaudi editore, ed è stato qui segnalato con un post del 19 settembre 2013
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