In mezzo scorre il
fiume
(di Felice Celato)
Prima
di scambiarci anche su questo blog
gli auguri di Natale (lo faremo fra qualche giorno), vi voglio mettere a parte
di alcune emozioni autunnali vissute sempre come C.U.R (Camminatore Urbano
Rimuginante).
Prima
una confessione, però, per rendervi edotti dell’umore che mi ha accompagnato
oggi per le strade di Roma (e forse ha rinvigorito le suggestioni): ero reduce tardivo
da un pranzo augurale fra ex colleghi, il cui “capobanda” e ospite-organizzatore
è uno dei maggiori gourmand che io conosca.
Inevitabile, quindi, l’omaggio patriottico
(s’intende!) ai prodotti eno-gastronomici (soprattutto eno!) che-tutto-il-mondo-ci-invidia (per
dirla col consueto polifonema cui noi Italiani ci siamo, un po’…ingenuamente,
affezionati); e quindi la lunga camminata aveva anche una funzione eupeptica ed
espiatoria degli eccessi calorici compiuti con incosciente baldanza.
Bene:
in questa beata e blanda euforia, camminando camminando, ho sostato a lungo sul
far della sera su un angolo di Roma che io considero fra i più suggestivi della
città, il ponte Garibaldi. Sono certo che molti di voi, soprattutto romani, si
domanderanno che cosa ci trovi mai di tanto suggestivo sul ponte Garibaldi, il
ponte moderno (fine ‘800) che immette da Trastevere verso il centro. Ve lo
spiego subito: dunque, sull’angolo estremo verso Trastevere, se vi fermate un
momento avrete una sorta di piccola lezione di storia della nostra civiltà
(certamente a Roma non mancano questi
scorci, ma questo per me ha un valore simbolico particolare). Sulla destra
(venendo dal centro), dietro una corona di platani imponenti che sopra le alte
murate accompagnano una piccola curva del Tevere, si staglia lo storico ponte
Sisto (la struttura attuale è un rifacimento quattrocentesco, credo dell’antico
pons Aurelius), forse il più alto di
Roma, elegante nelle sue quattro arcate che si
riflettono (soprattutto di sera) nel Tevere formando anelli imponenti molto fotografati dai
turisti. E dietro il ponte, alta svetta la cupola di san Pietro (disegnata da colui che nuovo Olimpo alzò a Roma ai
celesti) memoria – per me – di una fondazione e di una promessa eterna che
ancora, ogni volta che me la ripeto (tu
es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam et portae inferi non
paevalebunt adversus eam, Mt 16, 18 e s.), mi mette un brivido di forza.
Noi siamo parte di quella storia, eredi di quella promessa, fruitori di quella
certezza, per quanto indegni ne possiamo essere; e non praevalebunt adversus eam è il nerbo della nostra speranza nel cammino oscuro della storia.
Ti
volti a sinistra, verso l’altra riva del fiume e, dietro l’Isola Tiberina quasi
trattenuta alla corrente da due piccoli ponti romani (il ponte Cestio e il
ponte Fabricio), scorgi, anch’essa imponente, la cupola del Tempio Maggiore
(primo ‘900), la sinagoga maggiore degli ebrei romani, che il Tevere separa
dall’area una volta extra-cittadina dove, appunto, sorge San Pietro, quasi a
ricordare la storica primazia cittadina dell’ebraismo. Dietro alla cupola,
appena visibili, si scorgono i fregi alti del Vittoriano di piazza Venezia,
simboli pomposi di effimere glorie passate. Le acque del Tevere separano le
rive ma non la storia religiosa del nostro mondo (occidentale): le due cupole,
tanto diverse per storia e struttura, sono il segno delle nostre radici
culturali; dal fiume viene un fisico richiamo al flusso degli eventi (e dell’Evento) che ha segnato
le nostre vicende, senza nostro merito e senza altrui colpa. Così è andato il
tempo e in mezzo scorre il fiume,
silenzioso ma non ignaro.
Roma
20 dicembre 2016
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