venerdì 17 ottobre 2014

Stagioni e letture

San Paolo, Don Ferrante e Bernard Rieux
(di Felice Celato)
Non so se è la stagione (dell’anno o della vita?) ma i tempi mi creano una ansiosa sensazione di futilità, di totale instabilità e forse di insostenibile leggerezza, direbbe Kundera.
Tutto si muove a scatti inani, tutto sussulta (e fa sussultare), tutti i mondi che considero ogni giorno sembrano scossi come da ripetute crisi epilettiche, con fasi convulsive, violente contrazioni muscolari e brevi interruzioni dello stato di coscienza, seguite da brevi stati catatonici.
Con queste sensazioni di assenza di punti saldi, guardo attonito a ciò da cui più dipende il nostro presente e il futuro dei nostri figli: alle diatribe politiche nazionali, magari, queste, da sempre distoniche; a quelle (ora anche) europee, vaganti alla ricerca cieca di una nuova governance desiderata o temuta; agli equilibri internazionali, sempre più precari ed intrecciati e potenzialmente esplosivi; alle “misure” del governo economico del  paese, alcune sacrosante, altre oscure, tutte misteriose quanto alla loro sostenibilità; e persino alle vicende sinodali, da quelle mediatiche a quelle documentali, entrambe – mi pare – avviate su orizzonti tonanti ancora illuminati a sprazzi, come prima di una tempesta.
In questa straordinaria assenza di equilibri consolidati e di dinamiche chiare, in questa precaria sensazione che qualcosa debba pur veramente avvenire (non so bene di che natura), per recuperare una situazione meno inquieta mi rifugio volentieri nelle letture, prima di tutto in quelle che guardano più lontano, oltre la storia, a cominciare da San Paolo:
Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Ora la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l'aspettiamo con pazienza. (Rm, 8, 18-25)
Certo, poi penso, la storia ha riservato agli uomini tempi infinitamente più duri dei presenti e non meno confusi (forse, però, raramente  così futili).
Così ho ripreso in mano due libri, per paradosso molto distanti fra loro, per la mano, la cultura e l’animo di chi li ha scritti, eppure, casualmente, legati, per un tratto, dal medesimo evento che ha sconvolto, in tempi tanto lontani fra loro, le vite dei personaggi di quelle storie: la peste a Milano (ne I promessi sposi) e ad Orano (ne La peste, di Camus). In entrambi il male era oscuro, pervasivo, insidioso e nascosto, le vite falciate tante, il dolore riversato sugli uomini immenso; e poi due personaggi emblematici per tanti versi opposti: da un lato, Don Ferrante, che – come molti ottimisti dei dì nostri – pensava che la peste non esistesse in rerum natura perché non è sostanza né accidente (e, scrive Manzoni, “his fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe del Metastasio, prendendosela con le stelle”); e, dall’altro, il Bernard Rieux di Camus che, mestamente realista, “sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe il giorno in cui, per sventura e insegnamento degli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.
Ma i tempi passano, ognuno con la sua peste perché la creazione è stata sottoposta alla vanità. Il fatto è che i nostri tempi ci sembrano sempre i decisivi e gli ultimi (e magari lo sono).

Roma, venerdì 17 ottobre 2014

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