San Paolo, Don Ferrante e Bernard Rieux
(di
Felice Celato)
Non
so se è la stagione (dell’anno o della vita?) ma i tempi mi creano una ansiosa
sensazione di futilità, di totale instabilità e forse di insostenibile
leggerezza, direbbe Kundera.
Tutto
si muove a scatti inani, tutto sussulta (e fa sussultare), tutti i mondi che
considero ogni giorno sembrano scossi come da ripetute crisi epilettiche, con
fasi convulsive, violente contrazioni muscolari e brevi interruzioni dello
stato di coscienza, seguite da brevi stati catatonici.
Con
queste sensazioni di assenza di punti saldi, guardo attonito a ciò da cui più
dipende il nostro presente e il futuro dei nostri figli: alle diatribe politiche
nazionali, magari, queste, da sempre distoniche; a quelle (ora anche) europee,
vaganti alla ricerca cieca di una nuova governance
desiderata o temuta; agli equilibri internazionali, sempre più precari ed
intrecciati e potenzialmente esplosivi; alle “misure” del governo economico
del paese, alcune sacrosante, altre
oscure, tutte misteriose quanto alla loro sostenibilità; e persino alle vicende
sinodali, da quelle mediatiche a quelle documentali, entrambe – mi pare –
avviate su orizzonti tonanti ancora illuminati a sprazzi, come prima di una tempesta.
In
questa straordinaria assenza di equilibri consolidati e di dinamiche chiare, in
questa precaria sensazione che qualcosa debba pur veramente avvenire (non so
bene di che natura), per recuperare una situazione meno inquieta mi rifugio
volentieri nelle letture, prima di tutto in quelle che guardano più lontano,
oltre la storia, a cominciare da San Paolo:
Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano
paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro
riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei
figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di
sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella
speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della
corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo
infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo
essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di
noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo
stati salvati in speranza. Ora la speranza di ciò che si vede, non è speranza;
difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo
ciò che non vediamo, l'aspettiamo con pazienza. (Rm, 8, 18-25)
Certo, poi penso, la
storia ha riservato agli uomini tempi infinitamente più duri dei presenti e non
meno confusi (forse, però, raramente
così futili).
Così ho ripreso in
mano due libri, per paradosso molto distanti fra loro, per la mano, la cultura
e l’animo di chi li ha scritti, eppure, casualmente, legati, per un tratto, dal
medesimo evento che ha sconvolto, in tempi tanto lontani fra loro, le vite dei
personaggi di quelle storie: la peste a Milano (ne I promessi sposi) e ad Orano (ne La peste, di Camus). In entrambi il male era oscuro, pervasivo, insidioso
e nascosto, le vite falciate tante, il dolore riversato sugli uomini immenso; e
poi due personaggi emblematici per tanti versi opposti: da un lato, Don
Ferrante, che – come molti ottimisti dei dì nostri – pensava che la peste non
esistesse in rerum natura perché non è sostanza né accidente (e, scrive
Manzoni, “his fretus, vale a dire su
questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli
s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe del Metastasio, prendendosela
con le stelle”); e, dall’altro, il Bernard Rieux di Camus che, mestamente
realista, “sapeva quello che ignorava la
folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non
muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei
mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle
cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe il
giorno in cui, per sventura e insegnamento degli uomini, la peste avrebbe
svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.
Ma i tempi passano,
ognuno con la sua peste perché la
creazione è stata sottoposta alla vanità. Il fatto è che i nostri tempi ci
sembrano sempre i decisivi e gli ultimi (e magari lo sono).
Roma, venerdì 17
ottobre 2014
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