“La mentalità di questo secolo”
(di Felice Celato)
Già!
Mi diceva qualcuno che aveva letto il mio post del 21/ 9 u.s.: ma qual
è la mentalità di questo secolo?
Il
tema è, evidentemente, vasto ed impervio e certamente travalica l’ambito di
queste chiacchierate fra amici; ma forse qualche macro-tendenza potremmo anche
cercare di identificarla, coi mezzi (poverissimi) della nostra osservazione e
riflessione, almeno per orientarci a grandi linee su ciò cui non ci si dovrebbe
conformare, secondo l’esortazione Paolina di cui parlavamo....qualche post
fa.
Bene,
tentiamo un primo approccio. L'architrave della mentalità di questo secolo
(almeno nelle nostre longitudini culturalmente “occidentali”) mi pare essere l'ossessione
democratica di cui è permeato il nostro pensiero; tanto permeato che la
democrazia, da sistema finalizzato alla formazione del potere (ed al quale, per
il momento, non si conoscono alternative migliori), è diventata un sistema
finalizzato alla formazione del pensiero, sicché inevitabilmente siamo portati
a pensare che ciò che è diffusamente ritenuto corretto sia, ipso facto,
corretto. A ciò ha potentemente contribuito, da ultimo, la cosiddetta “rivoluzione
multimediale” con la nascita della “società in rete” che, in breve, “è
divenuta ambiente” (cfr. Salvatore Natoli: Sul buon uso del mondo,
Mondadori 2010). In questo “ambiente”, dove “i minori si adultizzano e gli
adulti regrediscono” (Censis, Fenomenologia della società impersonale,
2013), siamo portati a “pensare” che sia bello ciò che piace alla maggioranza,
giusto ciò che è conforme al metro di giudizio della maggioranza, buono ciò che la maggioranza considera
buono, secondo “una liquidità degli
assetti valoriali” (ancora Censis, Fenom.etc, 2013) che genera
continue e diffuse forme di adattamento.
Il
filosofo inglese Roger Scruton (Del buon uso del pessimismo, Lindau,
2010) non a caso parla di “fallacia dello spirito del tempo…(che) consiste
nell’assimilare tutto ciò che accade nel
mondo circostante…[appunto]allo spirito del tempo”, allo Zeitgeist,
per usare, con Scruton, un termine hegeliano. E poiché lo Zeitgeist è democratico,
tutto ciò che la maggioranza opina, desidera, sente e proclama è bonum et
laudabile, in ambito politico, culturale e persino – da alcuni si vorrebbe –
morale.
Le
immediate conseguenze di ciò sono, apparentemente, almeno due: (a) la pervasiva
isegoria: con questo termine, di uso sicuramente.....corrente, si intende
l'eguale diritto di parola nelle assemblee: nel nostro mondo ciascuno può prendere
parola nella pubblica assemblea (ora, tipicamente, la rete) su qualsiasi
materia, con pretesa di avere diritto al rispetto della sua opinione, per
quanto disinformata, impreparata, incolta e sgangherata sia. E la sua opinione
concorre a determinare il moloch sacro della pubblica opinione, sul cui
altare si effettuano quotidianamente sacrifici di buon senso, di saggezza, di
studio e di preparazione; (b) l'istintivo slittamento verso il facile (l’espressione
non è mia ma di Giuliano Ferrara che, tuttavia, la usa in un altro contesto) a
condizione che il facile sia attuale, in una continua “caccia alla
scorciatoia, più che al percorso, soprattutto se richiede sacrificio” (
Censis, I valori degli italiani, Marsilio,2012). I nostri tempi, direi
antropologicamente, non amano le sfide lunghe e complesse e i compiti ardui e,
così, lo slittamento verso il facile è divenuto una componente usuale
della mentalità di questo secolo, che ben si accompagna al principio di “democratizzazione”
del pensiero (di cui sopra). Così siamo portati a pensare che sia bene
costantemente adeguare il fine ai mezzi, ovviamente quando il fine è arduo; il
che, in alcuni ambiti (per esempio, nell’economia familiare o anche in quella aziendale) è sicuramente
cosa saggia (e non sempre riconosciuta). Ma in altri, certamente non lo è, anzi
ripugnerebbe pensarlo; così, estremizzando, sarebbe difficile da digerire
(almeno per me) un’affermazione di questo genere: poiché non riesco a debellare
la corruzione (il fine), rinuncio al suo perseguimento (il mezzo). E qui gli
esempi si potrebbero moltiplicare anche muovendo dal diritto all’etica; ma
lasciamo stare.
Roma,
8 ottobre 2014
Appendice per i non laici
La concomitanza sinodale, che attira tante inconsuete
attenzioni di laici ansiosi di tornare a ricevere l’Ostia, mi induce, come mi
insegnano diverse conversazioni con amici, ad un distinguo destinato a fugare
in radice sospetti che possano maliziosamente derivarsi dalle mie riflessioni
di oggi e di questi tempi.
Secondo me, in ambito morale ed entro i limiti della
verità (ah! a proposito: io sono di quelli che credono che esista una Verità!),
l’adeguamento del fine ai mezzi può rispondere ad un sano criterio pastorale:
per esempio, per i buoni paulotti (dei quali faccio parte sicuramente, con
qualche dubbio sul ”buoni”), quando, all’indomani della constatata ripulsa
generalizzata dell’ Humanae Vitae, si passò, appunto pastoralmente, ad
enfatizzare il fine della paternità responsabile rispetto alla scelta
del mezzo anticoncezionale, noi, che allora amavamo chiamarci “cattolici
adulti”, tirammo un sospiro di sollievo. E così, forse, molti di noi, quando il
Sinodo sancirà, come prevedo (ed anzi auspico), che ciò che la
tradizione aveva proposto come ideale e perciò normativo possa diventare
“un semplice orizzonte di cammino” (sono espressioni di un articolo
pubblicato recentemente da Aggiornamenti sociali), tireremo un sospiro
se non di sollievo almeno di….procurato discernimento; a condizione che ciò non
si ritenga il frutto di una singolare applicazione -alla fattispecie morale-
della mentalità democratica di cui si diceva sopra (cioè, perché così
fan tutti! per dirla con Mozart); e che, invece, si abbia coscienza che, in
fondo, ogni regola morale, per l’intrinseca debolezza dell’uomo, fissa un
semplice orizzonte di cammino (magari al “semplice” si potrebbe anche
rinunciare), rispetto al quale la vita sacramentale è, per così dire, un mezzo
e non un fine.
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