Tempi in rete
(di
Felice Celato)
Stamattina
ho ascoltato, come ogni domenica mattina, una bellissima trasmissione radio (su
Radio Radicale, dopo la quotidiana rassegna stampa): si tratta di Media e dintorni, dove vengono
analizzate con chiarezza e competenza le tendenze evolutive del mondo dei media: ha appreso, con iniziale
conforto, che, secondo rilevazioni internazionali, sembra, sorprendentemente,
in calo il tempo medio della connessione in rete degli utenti di internet (io
stesso, si badi bene, ne sono utente, di internet, ma onestamente, credo di
poter dire, con – almeno presunta – saggezza). Poi però, il conforto è
scomparso quando ho sentito che, sempre secondo rilevazioni internazionali,
pare che stia sfuggendo la capacità di misurare questo tempo di connessione, in
quanto, la maggior parte degli utenti rilevati, dichiara di non saper più
distinguere con chiarezza (grazie a tablets e smart-phones) quando è connesso e
quando non le è.
Terribile!
Mi è
venuta in mente quella tendenza delle organizzazioni aziendali moderne che va
sotto la sigla di BPO (Business Processes
Outsourcing): in termini più semplici, si tratta di quella (sana) tecnica organizzativa che, per flessibilizzare
la struttura dei costi, tende a trasferire all’esterno (Outsuorcing), a strutture specializzate, alcuni processi di business non strettamente core, cioè non essenziali rispetto allo
svolgimento di un processo industriale (tipicamente: la gestione delle paghe,
la gestione di centri elettronici, etc).
Bene:
questa confusione fra tempo in rete e tempo non in rete, mi pare una sorta di Brain Processes Outsourcing, quasi un
trasferimento del cervello (Brain,
appunto) al di fuori di noi, in rete, quasi come se il processo del pensare autonomamente
ci stia diventando non-core, non
essenziale rispetto al nostro mestiere di umani. Forse è questa una delle
componenti fondamentali di quella crisi antropologica di cui da tempo mi vado
convincendo?
Se
qualcuno pensa che esageri, provi a leggere, con (spero, riluttante) costanza,
i commenti che continuamente arrivano ai giornali su qualsiasi notizia, un
terribile florilegio di quel dissennato opinionismo istantaneo di cui soffre il
nostro mondo: tutti hanno qualcosa da dire su tutto, e rigorosamente a caldo
(ovviamente con abbondanza di indignazioni e di punti esclamativi), senza che (quasi) nessuno abbia competenza su
quanto sentenzia. Mi sono sempre domandato perché i direttori dei giornali
pubblichino questi borborigmi elettronici, che poi diventano "le opinioni del popolo della rete"(sempre connesso, ovviamente).
Mah!
Speriamo bene!
Roma
28 ottobre 2012
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