venerdì 19 maggio 2017

Letture

Volgare eloquenza
(di Felice Celato)
Eccoci qua, di nuovo con un consiglio per la lettura. Si tratta, stavolta, di un libro appena uscito (di Giuseppe Antonelli: Volgare eloquenza – Come le parole hanno paralizzato la politica, Giuseppe Laterza ed., 2017, disponibile anche in ebook) che incrocia due temi ricorrenti su questo blog e a me particolarmente cari (si vedano i post del 16 febbraio e del 21 marzo 2017, entrambi non a caso intitolati Babele): la nostra crisi culturale e antropologica vista attraverso la crisi del linguaggio della politica. L’autore del libro, infatti, è un professore di linguistica e la sua materia si presta magnificamente a misurare, nelle forme (i significanti), il degrado della sostanza (i significati), peraltro secondo un processo circolare sintetizzato da una fulminante citazione di George Orwell (Se il pensiero corrompe il linguaggio, anche il linguaggio può corrompere il pensiero) che, in fondo, richiama il senso di quella, più modesta, da noi più volte rubata ad un film di Moretti: chi parla male, pensa male e vive male.
E che la nostra “politica” pensi male (anzi proprio abbia rinunciato a pensare per, piuttosto, fabulare, banalizzare, turpiloquiare, ostentare una popolarità artificiale, simulare schiettezza, piacere ad ogni costo, slabbrare concetti differenzianti, omogeneizzare attraverso lo sghignazzo ruffiano, ridurre tutto in parole povere, etc ) Antonelli lo documenta con una vasta congerie di esempi (alcuni anche divertenti, tragicamente divertenti) che testimoniano la dilagante vacuità dei linguaggi,  indotta, ahinoi!, dalla vacuità delle retrostanti “culture”; perchè l’imputato non è la lingua – ribadisce il linguista Antonelli citando Francesco Merlo – che è sempre ricca e dunque impura ma è il collasso dei valori che nella lingua si trasmette.
L’analisi e l’esemplificazione di cui il testo abbonda sono rigorosamente bi-partisan, anche se – fatalmente – la diagnosi linguistica porta ad indentificare un passaggio critico nell’ evoluzione dall’italiano popolare all’italiano populista, peraltro non necessariamente confinato nell’area politica alla quale si attribuisce tale connotazione; anzi, dice Antonelli, tutto è cominciato con la seconda Repubblica. La crisi dei partiti tradizionali, infatti, è stata prima di tutto una crisi linguistica. La mitologia del nuovo ha reso improvvisamente vecchie le formule identitarie che fin dal dopoguerra avevano caratterizzato il discorso di destra, di sinistra e di centro. E quelli che si sono presentati come i nuovi soggetti politici hanno preso a rivolgersi non ad un preciso blocco sociale ma al cosiddetto “italiano medio”. O meglio all’ipostasi, talvolta alla caricatura, dell’italiano medio.
Alla fine del saggio (breve, ricco e piacevolissimo da leggere), l’autore avanza un’ipotesi di terapia che, io, francamente, leggo più come un’invocazione nostalgica che come una concreta speranza; ma che tuttavia mi ha colpito per le parole così vicine al mio sentire: dobbiamo tornare a dire di sì al logos, prima come pensiero e poi come parola. Riflettere, discutere, mettere a punto delle idee, prima di cercare il modo per veicolarle e diffonderle. Interpretare la complessità del mondo nei suoi meccanismi economici e sociali e poi proporre soluzioni realistiche e praticabili, non slogan ripetibili. Solo così la politica potrà restituire peso alle parole. L’ecosistema tecnologico c’è già: la sfida – per la politica – è renderlo anche un nuovo ecosistema linguistico.
Malinconicamente: le sottolineature sono mie.

Roma  19 maggio 2017 (San Pietro da Morrone, venerato come san Celestino V, 192° papa della Chiesa Cattolica, così poco compreso dal nostro Padre Dante)


                             

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