Volgare eloquenza
(di
Felice Celato)
Eccoci
qua, di nuovo con un consiglio per la lettura. Si tratta, stavolta, di un libro
appena uscito (di Giuseppe Antonelli: Volgare
eloquenza – Come le parole hanno paralizzato la politica, Giuseppe Laterza
ed., 2017, disponibile anche in ebook) che incrocia due temi ricorrenti su questo blog e a me particolarmente cari (si vedano i post del 16 febbraio e del 21 marzo 2017, entrambi non a caso intitolati
Babele): la nostra crisi culturale e
antropologica vista attraverso la crisi del linguaggio della politica. L’autore
del libro, infatti, è un professore di linguistica e la sua materia si presta
magnificamente a misurare, nelle forme (i significanti), il degrado della
sostanza (i significati), peraltro secondo un processo circolare sintetizzato
da una fulminante citazione di George Orwell (Se il pensiero corrompe il linguaggio, anche il linguaggio può
corrompere il pensiero) che, in fondo, richiama il senso di quella, più
modesta, da noi più volte rubata ad
un film di Moretti: chi parla male, pensa
male e vive male.
E
che la nostra “politica” pensi male (anzi proprio abbia rinunciato a pensare per,
piuttosto, fabulare, banalizzare, turpiloquiare, ostentare una popolarità
artificiale, simulare schiettezza, piacere ad ogni costo, slabbrare concetti
differenzianti, omogeneizzare attraverso lo sghignazzo ruffiano, ridurre tutto in parole povere, etc )
Antonelli lo documenta con una vasta congerie di esempi (alcuni anche
divertenti, tragicamente divertenti) che testimoniano la dilagante vacuità dei
linguaggi, indotta, ahinoi!, dalla vacuità delle retrostanti “culture”; perchè l’imputato non è la lingua – ribadisce
il linguista Antonelli citando Francesco Merlo – che è sempre ricca e dunque impura ma è il collasso dei valori che
nella lingua si trasmette.
L’analisi
e l’esemplificazione di cui il testo abbonda sono rigorosamente bi-partisan, anche se – fatalmente – la
diagnosi linguistica porta ad indentificare un passaggio critico nell’
evoluzione dall’italiano popolare all’italiano populista, peraltro non
necessariamente confinato nell’area politica alla quale si attribuisce tale
connotazione; anzi, dice Antonelli, tutto
è cominciato con la seconda Repubblica. La crisi dei partiti tradizionali,
infatti, è stata prima di tutto una crisi linguistica. La mitologia del nuovo
ha reso improvvisamente vecchie le formule identitarie che fin dal dopoguerra
avevano caratterizzato il discorso di destra, di sinistra e di centro. E quelli
che si sono presentati come i nuovi soggetti politici hanno preso a rivolgersi
non ad un preciso blocco sociale ma al cosiddetto “italiano medio”. O meglio
all’ipostasi, talvolta alla caricatura, dell’italiano medio.
Alla
fine del saggio (breve, ricco e piacevolissimo da leggere), l’autore avanza
un’ipotesi di terapia che, io, francamente, leggo più come un’invocazione
nostalgica che come una concreta speranza; ma che tuttavia mi ha colpito per le
parole così vicine al mio sentire: dobbiamo
tornare a dire di sì al logos, prima come pensiero e poi come parola. Riflettere,
discutere, mettere a punto delle idee, prima di cercare il modo per
veicolarle e diffonderle. Interpretare la complessità del mondo nei suoi
meccanismi economici e sociali e poi proporre soluzioni realistiche e
praticabili, non slogan ripetibili.
Solo così la politica potrà restituire peso alle parole. L’ecosistema
tecnologico c’è già: la sfida – per la politica – è renderlo anche un nuovo
ecosistema linguistico.
Malinconicamente:
le sottolineature sono mie.
Roma 19 maggio 2017 (San Pietro da Morrone,
venerato come san Celestino V, 192° papa della Chiesa Cattolica, così poco
compreso dal nostro Padre Dante)
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