La consolazione del linguaggio
(di Felice Celato)
Oggi, da poco superati i 2.000 passi, non avendo fretta (questo è
uno dei tanti privilegi della mia vita attuale) ho preso un tram che, dopo un
larghissimo giro, mi porta a 1.500 passi dalla mia meta quotidiana. [N.B.:
considerato il previsto pomeriggio golfistico, 3.500 passi mattutini possono
bastare].
In tram, mi si siede accanto una ragazza (31 anni, come apprenderò
ascoltandola) alle prese con una interminabile e fluente conversazione
monodirezionale (forse con suo padre?) che non ho potuto non ascoltare in ogni
dettaglio.
Tema: la fine di una convivenza (decennale), sullo sfondo di
un'esistenza (così mi è parso di capire) certamente non facilissima (un lavoro
non troppo sicuro, uno stipendio che a volte ritarda, 4 gatti e 2 cani da
mantenere in una casa in affitto, etc.).
Bene: dico subito che non si poteva non provare simpatia per le
presumibili difficoltà esistenziali della giovane donna e per il modo
baldanzoso e rassicurante con cui dichiarava (al padre?) di saperle gestire.
Viviamo in un tempo difficile, soprattutto per i giovani; un tempo difficile
che facciamo fatica a superare, non solo perché è - appunto - obiettivamente
difficile, ma anche perché in fondo non lo abbiamo capito né abbiamo capito
dove stia il bandolo delle matasse in cui ci intrecciamo.
Quello però che mi ha colpito profondamente del
"racconto" di Samantha (chiamiamola così, con un nome da soap-opera) è stato il linguaggio,
convenzionale, stereotipato, smaccatamente televisivo (da soap-opera appunto; o da talk-show
pomeridiano sulla vita in diretta), denso di stilemi culturali standardizzati
sull'estroversione sentimentale, alla quale l'accento romanesco aggiungeva un
armonico tocco di popolarità.
In fondo - mi sono detto - il linguaggio stava svolgendo una
funzione terapeutica (largamente prevalente su quella comunicativa): non
mirava, cioè, alla descrizione di una turbata situazione sentimentale ed
esistenziale, ma alla sua riduzione in una specie di format televisivo, del quale Samantha si sentiva brillante e
coraggiosa protagonista, in fondo à la
page con tutti i modi convenzionali di guardare al mondo e di inquadrare
vicende analoghe; vicende che - per ciò stesso, nel racconto di Samantha -
sembravano via via perdere la loro connotazione dolorosa (in fondo
l'interruzione di una convivenza decennale qualche risvolto doloroso dovrà pure
averne avuto!) a vantaggio di una rappresentazione tipizzata dove il dramma
personale diventa commedia valoriale.
Alla fine della conversazione (dopo almeno 20 minuti di ascolto ininterrotto e
solo perché la giovane donna è scesa dal tram) sono rimasto a pensare su questa
funzione "terapeutica" del linguaggio.
Nihil sub sole novi, mi sono detto! In fondo
anche in tempi men leggiadri e incipriati dei presenti, si diceva:
"raccontami, parlarne ti farà
bene". Già ma, forse, allora faceva bene il sentirsi ascoltato,
oggi, mi pare, fa bene il sentirsi parlare.
Roma 12 maggio 2017 (san Pancrazio martire)
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