…..e ruminazioni
conseguenti
(di Felice Celato)
Sarà
senz’altro vero che il leaderismo
(cioè la dominanza assoluta e personalistica di un capo) costituisca una
ricorrente tentazione, non solo Italiana (cfr. De Rita sul Corriere della sera del 29 gennaio u.s.); e anche, ad un tempo, una
innegabile connotazione (magari patologica) di molte delle contemporanee forme
partitiche. Almeno da noi, la stucchevole ricorrenza, in ogni contesto
partitico che si rispetti (….e anche che non si rispetti), del mantra politico-ciclistico “non vogliamo l’uomo solo al comando” è,
in fondo, proprio con la sua frustrata cantilena, la testimonianza
dell’attualità del tema e della sua autentica criticità in ordine agli assetti
organizzativi delle forme politiche nostrane. Anzi, sempre De Rita, introducendo il Rapporto Censis del 2015,
addirittura poneva il fenomeno (insieme ad altri) alla radice dell’interrotta osmosi fra governo e collettività….tra primato della politica e mondi vitali
sociali che hanno caratterizzato i migliori periodi della nostra storia recente.
Ma
mi permetto di proporre una chiave di lettura che mi viene suggerita da un
articolo (Ripenso ergo sum, di Carlo
Sorrentino) apparso qualche giorno fa sulla Rivista
Il Mulino. Il sociologo fiorentino si sofferma brevemente ad indagare il
fenomeno del ripensamento come
strumento politico, non di salutare ruminazione delle proprie opinioni ma di
pronta conformazione delle stesse all’esigenza di conquistare simpatie e casomai voti.
Che
il fenomeno sia dilagante non credo sia necessario documentarlo con esempi. È di
evidenza quotidiana l’ossessiva dominanza delle reazioni “popolari” a questo o
a quel provvedimento e l’immediata sudditanza politica verso tali reazioni, sia
con prese di distanza da quanto appena operato sia con promesse di pronta
revisione; come è pure di evidenza quotidiana la prona condiscendenza politica
a farsi carico (o perlomeno: a dichiarare di volersi far carico) delle più
immeditate istanze di provvedere a questo o a quella “nuova disciplina” per
porre un estemporaneo argine a questa o a quella presunta carenza di specifica
disciplina (sia essa l’omicidio stradale o, magari, presto, il più specifico ciclisticidio, fors’anche distinto in
maschile e femminile).
Dunque
gli esempi non sono decisivi al riguardo, tanto ricorrenti sono i fatti. E’
invece, se mi è concesso, assai più importante domandarsi se questo fenomeno
non integri una vera e propria ulteriore involuzione del leaderismo di cui parlavamo all’inizio. Mi viene cioè il dubbio che l'uomo solo al comando non sia, oggi, il leaderista di turno ma quella astrazione concettuale
che è l’uomo comune, o l’uomo qualunque
direbbe Guglielmo Giannini di Italianissima memoria, ovvero la cosiddetta pubblica opinione, modellata nel corto
circuito mediatico che suscita, descrive, raccoglie, attizza e rigenera
emozioni ed istanze facendone una “valanga politica” capace di travolgere
qualsiasi (debole) decisore.
Si
potrebbe obiettare –
osserva giustamente Sorrentino – che
saper comprendere e rispettare l’opinione pubblica è il sale della democrazia.
Un’indubbia verità da coltivare e perseguire, se l’opinione pubblica fosse
vista come luogo di dibattito largo e approfondito atto a favorire l’inclusione
sociale e a invogliare nuove forme di partecipazione. Ma, invece, quello
a cui assistiamo ormai quotidianamente è la propensione a cavalcare l’emotività
del momento, casomai avallata da qualche titolo di
giornale, da frettolosi sondaggi o ancora peggio dall’immediata puntualità
delle contumelie in rete, da cui i nostri decisori
sembrano ogni giorno più ammaliati e che si affrettano a inseguire.
Vengo alla mia conclusione: temo che
il nostro depresso momento culturale (o antropologico?) tenda a medicare un
male (il leaderismo, inteso come
enfatizzazione del comando senza vera leadership culturale e sociale) con un
peggio (la dissoluzione del centro di gravità sociale nel pulviscolo delle
emozionalità e delle improvvisazioni).
Il complesso dei cittadini di un paese
moderno avrebbe forse ragione di lamentarsi ove si sentisse identificato come gregge (termine assai più consono al
linguaggio ecclesiale); né, del resto, sarebbe adeguato ai tempi e agli stilemi
espressivi della politica moderna identificare in un pastore il leader
autentico di un siffatto paese (o, molto meglio: nei pastori i leaders democraticamente eletti di un siffatto paese).
Politicamente si tratterebbe di un linguaggio di altri tempi, non esente da
possibili fraintendimenti (certamente da chi scrive non voluti). Ma, anche qui,
gli archetipi del gregge e dei pastori ci aiutano a ri-esprimere qualcosa che una volta
(cfr. sopra, De Rita) ben sapevamo: il gregge ha bisogno di pastori che non
belino, che non si identifichino cioè né nel “pensiero” né nel linguaggio delle
pecore delle quali devono prendersi cura.
Roma 13 maggio 2017
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