sabato 13 maggio 2017

Leaders e....greggi

…..e ruminazioni conseguenti
(di Felice Celato)
Sarà senz’altro vero che il leaderismo (cioè la dominanza assoluta e personalistica di un capo) costituisca una ricorrente tentazione, non solo Italiana (cfr. De Rita sul Corriere della sera del 29 gennaio u.s.); e anche, ad un tempo, una innegabile connotazione (magari patologica) di molte delle contemporanee forme partitiche. Almeno da noi, la stucchevole ricorrenza, in ogni contesto partitico che si rispetti (….e anche che non si rispetti), del mantra politico-ciclistico “non vogliamo l’uomo solo al comando” è, in fondo, proprio con la sua frustrata cantilena, la testimonianza dell’attualità del tema e della sua autentica criticità in ordine agli assetti organizzativi delle forme politiche nostrane. Anzi, sempre De Rita,  introducendo il Rapporto Censis del  2015, addirittura poneva il fenomeno (insieme ad altri) alla radice dell’interrotta osmosi fra governo e collettività….tra primato della politica e mondi vitali sociali che hanno caratterizzato i migliori periodi della nostra storia recente.
Ma mi permetto di proporre una chiave di lettura che mi viene suggerita da un articolo (Ripenso ergo sum, di Carlo Sorrentino) apparso qualche giorno fa sulla Rivista Il Mulino. Il sociologo fiorentino si sofferma brevemente ad indagare il fenomeno del ripensamento come strumento politico, non di salutare ruminazione delle proprie opinioni ma di pronta conformazione delle stesse all’esigenza di conquistare simpatie e casomai voti.
Che il fenomeno sia dilagante non credo sia necessario documentarlo con esempi. È di evidenza quotidiana l’ossessiva dominanza delle reazioni “popolari” a questo o a quel provvedimento e l’immediata sudditanza politica verso tali reazioni, sia con prese di distanza da quanto appena operato sia con promesse di pronta revisione; come è pure di evidenza quotidiana la prona condiscendenza politica a farsi carico (o perlomeno: a dichiarare di volersi far carico) delle più immeditate istanze di provvedere a questo o a quella “nuova disciplina” per porre un estemporaneo argine a questa o a quella presunta carenza di specifica disciplina (sia essa l’omicidio stradale o, magari, presto, il più specifico ciclisticidio, fors’anche distinto in maschile e femminile).
Dunque gli esempi non sono decisivi al riguardo, tanto ricorrenti sono i fatti. E’ invece, se mi è concesso, assai più importante domandarsi se questo fenomeno non integri una vera e propria ulteriore involuzione del leaderismo di cui parlavamo all’inizio. Mi viene cioè il dubbio che l'uomo solo al comando non sia, oggi, il leaderista di turno ma quella astrazione concettuale che è l’uomo comune, o l’uomo qualunque direbbe Guglielmo Giannini di Italianissima memoria, ovvero la cosiddetta pubblica opinione, modellata nel corto circuito mediatico che suscita, descrive, raccoglie, attizza e rigenera emozioni ed istanze facendone una “valanga politica” capace di travolgere qualsiasi (debole) decisore.
Si potrebbe obiettare – osserva giustamente Sorrentino – che saper comprendere e rispettare l’opinione pubblica è il sale della democrazia. Un’indubbia verità da coltivare e perseguire, se l’opinione pubblica fosse vista come luogo di dibattito largo e approfondito atto a favorire l’inclusione sociale e a invogliare nuove forme di partecipazione. Ma, invece, quello a cui assistiamo ormai quotidianamente è la propensione a cavalcare l’emotività del momento, casomai avallata da qualche titolo di giornale, da frettolosi sondaggi o ancora peggio dall’immediata puntualità delle contumelie in rete, da cui i nostri decisori sembrano ogni giorno più ammaliati e che si affrettano a inseguire.
Vengo alla mia conclusione: temo che il nostro depresso momento culturale (o antropologico?) tenda a medicare un male (il leaderismo, inteso come enfatizzazione del comando senza vera  leadership culturale e sociale) con un peggio (la dissoluzione del centro di gravità sociale nel pulviscolo delle emozionalità e delle improvvisazioni).
Il complesso dei cittadini di un paese moderno avrebbe forse ragione di lamentarsi ove si sentisse identificato come gregge (termine assai più consono al linguaggio ecclesiale); né, del resto, sarebbe adeguato ai tempi e agli stilemi espressivi della politica moderna identificare in un pastore il leader autentico di un siffatto paese (o, molto meglio: nei pastori i leaders democraticamente eletti di un siffatto paese). Politicamente si tratterebbe di un linguaggio di altri tempi, non esente da possibili fraintendimenti (certamente da chi scrive non voluti). Ma, anche qui, gli archetipi del gregge e dei pastori ci aiutano a ri-esprimere qualcosa che una volta (cfr. sopra, De Rita) ben sapevamo: il gregge ha bisogno di pastori che non belino, che non si identifichino cioè né nel “pensiero” né nel linguaggio delle pecore delle quali devono prendersi cura.

Roma 13 maggio 2017

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