Nuovi cieli e una terra nuova
(di
Felice Celato)
“Aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova” (2Pt, 3,
13), come ci ricorda la liturgia odierna.
La deflazione delle aspettative, il capitale inagito, il declassamento del debito, la mafia capitale, il mondo di mezzo, le riforme
non fatte, l’obbligata solitudine,
la società a-sistemica, le giare monadiche del nostro limitato
fermento: queste sono le immagini e le parole di questi giorni tristi di Rinvio
a Giudizio Universale, il R.a.G.U.
rancido che manda odori ormai marci su tutta la stampa quotidiana.
I
giornali e i media in generale si
affannano a descrivere lo smottamento intercettato e a diffondere, con alterna
intelligenza, le analisi culturali, sociologiche, di costume, di fazione o di
banda che i tempi suggeriscono, o le consuete ricette emotive (nuovi reati,
pene più dure, etc) che resistono ad ogni fallimento recente ed antico come le
famose grida sui bravi del ‘600 che
il buon padre Manzoni con eterna
ironia ci racconta.
Sarebbe
avventato (e forse anche stupido) prodursi, in poche righe, in ulteriori
deprecazioni, altre analisi, nuove ricette; però mi viene in mente un’idea
bizzarra, forse romantica e certamente vecchia, come un’antica ricetta della
nonna: se, solo, provassimo a volerci più bene? Voglio dire: se solo provassimo
a semplicemente guardare ai nostri mali (che sono tanti a non nuovi) con cura
pietosa, attiva – s’intende – laddove un’attività concreta e anche repressiva
naturalmente si incardina (intendo le indagini di ordine pubblico), ma senza il
perverso compiacimento del male che sembra pervaderci?
Il
Censis, di cui abbiamo parlato nell’ultimo post,
da sempre lo fa, allineando analisi documentate e crude (molte delle parole
sopra citate sono appunto prese dal suo annuale Rapporto) ma senza ignorare i
fermenti repressi sui quali occorrerebbe sperare. Ma, mi domando, sulla stampa (e
sui media in generale) che ogni
giorno diffonde i miasmi di un’Italia franante, non c’è forse un supplemento di
oscura disperazione che ci fa intendere, se possibile, più malati di quanto non
siamo? Negli ipocriti tentativi dei politici di cavalcare l’indignazione
collettiva a fini propri non c’è forse una dose aggiuntiva di sentimenti
distruttivi, che non lascia spazi ad alcuna speranza se non a quella, fallace,
che cambiando il potere ne sparirebbe per sempre anche il lato oscuro, quasi come se il male
non fosse diffuso fra noi con indistinta ed ignota distribuzione e come se –
non ostanti le prove contrarie – disponessimo di schiere di angeli da
contrapporre alle schiere dei demoni?
E’
un discorso difficile, me ne rendo conto, sottile e forse anche potenzialmente
foriero di equivoci, anche gravi. Ma non per questo mi astengo dal farlo, io
che – anche su questi post – mi sono
guadagnato la bolla del pessimista: certo non ho (e ragionatamente!) una buona
percezione del nostro presente (questo credo lo si sia capito abbastanza
chiaramente); ma mi sono sempre rifiutato di non sperare che l’uso di
ragione e verità – valori negletti ma non inaccessibili – possa ricondurci sui
sentieri buoni che abbiamo dimostrato di saper percorrere, anche se il futuro
del nostro mondo non sarà più come il passato anche recente. La sommersa esigenza di un nuovo umanesimo
(sempre Censis, pg 51 del Rapporto 2014) non va zavorrata di cupa disperazione:
per quanto gravi e diffusi siano i nostri mali, se solo sapessimo amorevolmente
(sì! amorevolmente, misericordiosamente, pietosamente!) parlarci – senza
stupide vanaglorie – anche del
bene di cui siamo – individualmente e collettivamente – capaci pur in mezzo ai
disastri comportamentali di cui sentiamo raccontare, non tutto il nostro
capitale umano resterebbe inagito,
paralizzato com’è da un senso di
inutilità; ne sono sicuro, perché l’Italia non è ancora il tragico selfie che ci scattiamo spietatamente
ogni giorno.
Roma
7 dicembre 2014 (vigilia della festa dell’Immacolata Concezione)
Nessun commento:
Posta un commento