domenica 7 dicembre 2014

Tragici selfie

Nuovi cieli e una terra nuova
(di Felice Celato)

Aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova” (2Pt, 3, 13), come ci ricorda la liturgia odierna.

La deflazione delle aspettative, il capitale inagito, il declassamento del debito, la mafia capitale, il mondo di mezzo, le riforme non fatte, l’obbligata solitudine, la società a-sistemica, le giare monadiche del nostro limitato fermento: queste sono le immagini e le parole di questi giorni tristi di Rinvio a Giudizio Universale, il R.a.G.U. rancido che manda odori ormai marci su tutta la stampa quotidiana.
I giornali e i media in generale si affannano a descrivere lo smottamento intercettato e a diffondere, con alterna intelligenza, le analisi culturali, sociologiche, di costume, di fazione o di banda che i tempi suggeriscono, o le consuete ricette emotive (nuovi reati, pene più dure, etc) che resistono ad ogni fallimento recente ed antico come le famose grida sui bravi del ‘600 che il buon padre Manzoni con eterna ironia ci racconta.
Sarebbe avventato (e forse anche stupido) prodursi, in poche righe, in ulteriori deprecazioni, altre analisi, nuove ricette; però mi viene in mente un’idea bizzarra, forse romantica e certamente vecchia, come un’antica ricetta della nonna: se, solo, provassimo a volerci più bene? Voglio dire: se solo provassimo a semplicemente guardare ai nostri mali (che sono tanti a non nuovi) con cura pietosa, attiva – s’intende – laddove un’attività concreta e anche repressiva naturalmente si incardina (intendo le indagini di ordine pubblico), ma senza il perverso compiacimento del male che sembra pervaderci?
Il Censis, di cui abbiamo parlato nell’ultimo post, da sempre lo fa, allineando analisi documentate e crude (molte delle parole sopra citate sono appunto prese dal suo annuale Rapporto) ma senza ignorare i fermenti repressi sui quali occorrerebbe sperare. Ma, mi domando, sulla stampa (e sui media in generale) che ogni giorno diffonde i miasmi di un’Italia franante, non c’è forse un supplemento di oscura disperazione che ci fa intendere, se possibile, più malati di quanto non siamo? Negli ipocriti tentativi dei politici di cavalcare l’indignazione collettiva a fini propri non c’è forse una dose aggiuntiva di sentimenti distruttivi, che non lascia spazi ad alcuna speranza se non a quella, fallace, che cambiando il potere ne sparirebbe per sempre  anche il lato oscuro, quasi come se il male non fosse diffuso fra noi con indistinta ed ignota distribuzione e come se – non ostanti le prove contrarie – disponessimo di schiere di angeli da contrapporre alle schiere dei demoni?
E’ un discorso difficile, me ne rendo conto, sottile e forse anche potenzialmente foriero di equivoci, anche gravi. Ma non per questo mi astengo dal farlo, io che – anche su questi post – mi sono guadagnato la bolla del pessimista: certo non ho (e ragionatamente!) una buona percezione del nostro presente (questo credo lo si sia capito abbastanza chiaramente); ma mi sono sempre rifiutato di non sperare che l’uso di ragione e verità – valori negletti ma non inaccessibili – possa ricondurci sui sentieri buoni che abbiamo dimostrato di saper percorrere, anche se il futuro del nostro mondo non sarà più come il passato anche recente. La sommersa esigenza di un nuovo umanesimo (sempre Censis, pg 51 del Rapporto 2014) non va zavorrata di cupa disperazione: per quanto gravi e diffusi siano i nostri mali, se solo sapessimo amorevolmente (sì! amorevolmente, misericordiosamente, pietosamente!) parlarci – senza stupide vanaglorie –  anche del bene di cui siamo – individualmente e collettivamente – capaci pur in mezzo ai disastri comportamentali di cui sentiamo raccontare, non tutto il nostro capitale umano resterebbe inagito, paralizzato com’è  da un senso di inutilità; ne sono sicuro, perché l’Italia non è ancora il tragico selfie che ci scattiamo spietatamente ogni giorno.

Roma 7 dicembre 2014 (vigilia della festa dell’Immacolata Concezione)

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