domenica 16 febbraio 2014

Letture

Il popolo e gli dei
(di Felice Celato)
Con questo titolo (Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha separato gli italiani, Laterza, 2014) Giuseppe De Rita e Antonio Galdo hanno raccolto, in una sintesi di grande respiro civile, i loro pensieri e i sensi molteplici di analisi condotte dal Censis e da altri ricercatori sociali attorno al momento cruciale che la nostra società (o, forse meglio: molte delle nostre società occidentali) stanno vivendo. Il libro si articola in tre capitoli focalizzati su quelli che appaiono agli autori i drivers delle grandi fratture che segnano l’Italia e gli Italiani (divenuti “popolo di sabbia, fragile per definizione”): (1) la progressiva sottrazione di sovranità (verso il basso – l’opaco e costoso federalismo – e verso l’alto – gli algidi organismi sovranazionali); (2) la fine della rappresentanza (la rabbiosa sudditanza che ha preso il luogo della cittadinanza, esprimendosi in una “’democrazia del pubblico’ televisivo ed informatico” che ha occupato il vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti); (3) il potere cieco dei mercati (che ha allargato le disuguaglianze, alimentando il conflitto liquido che si disperde in molti rivoli).
Come sempre lo sono gli scritti di De Rita, anche questo è ricco di spunti di riflessione (che vanno ben al di là delle fulminanti sintesi lessicali, sempre utilissime e affascinanti) e di indicazioni positive che (“forse per inguaribile ottimismo”) delineano comunque delicate vie d’uscita.
Nel raccomandarne la lettura ai pochissimi che si fidano delle mie raccomandazioni (fra i pochi ma cari che leggono queste note) mi piace sottolineare due punti del breve volume che mi trovano particolarmente consenziente ed un terzo sul quale mi sento di affacciare qualche riserva; il primo: la breve ma centratissima analisi sull’origine del soverchiante debito pubblico italiano (“con i soldi dello Stato il ceto medio italiano, in una logica assistenziale, ha visto garantiti il proprio benessere e stili di vita superiori alle proprie possibilità”), sull’urgenza di una sua “riduzione consistente” e, infine, sulle misure pensabili per operarla (su queste ometto ogni citazione perché esse riflettono integralmente quanto io stesso da tempo mi sono avventurato ad ipotizzare su queste "pagine", facendo perno sul riequilibrio fra patrimoni familiari e patrimonio dello Stato). Il secondo: la pericolosa dilatazione delle disuguaglianze reddituali, spesso esasperata fino a livelli intollerabili. Da questo punto di vista, anzi, le misure di riequilibrio fra patrimoni personali e patrimonio dello Stato (comunque operate) troverebbero un’ulteriore giustificazione. Il terzo punto infine è quello sul quale spesso, quando leggo o ascolto De Rita, non mi sento completamente a mio agio: a mio sommesso avviso,  quando si rivolgono ai mercati (soprattutto internazionali e finanziari in particolare), le analisi di De Rita scontano una certa dose di (comprensibile ma non sempre centrato) pregiudizio culturale, quasi un residuo di retoriche mediatiche non del tutto raffinato. Faccio qualche esempio: quando si parla di téchne dei mercati finanziari (che con “semplici algoritmi e attraverso applicazioni econometriche che utilizzano a loro discrezione”….possono “accumulare in poco tempo ricchezze incalcolabili”); o quando si invoca “la necessità di uscire dalle politiche del rigore” (ma non avevamo detto quanto abbiamo sintetizzato al punto primo?); o quando si attribuisce un significato economico (al di là di quello sociale e di costume, assolutamente condiviso, come detto al punto secondo) alle retribuzioni apicali, per esempio, dei banchieri; bene, in questi casi, a mio giudizio, si rischia di confondere i sintomi con la malattia (sulla quale, mi ripeto, le diagnosi di De Rita e Galdo mi trovano pienamente consenziente).
A parte questa del resto marginale sensazione, il libro mi pare una lettura "saggia", che utilmente distrae dalle "orticarie" del "dibattito" politico corrente.
Roma, 16 febbraio 2014


Nessun commento:

Posta un commento