Il
popolo e gli dei
(di Felice Celato)
Con
questo titolo (Il popolo e gli dei. Così
la Grande Crisi ha separato gli italiani, Laterza, 2014) Giuseppe De Rita e
Antonio Galdo hanno raccolto, in una sintesi di grande respiro civile, i loro
pensieri e i sensi molteplici di analisi condotte dal Censis e da altri
ricercatori sociali attorno al momento cruciale che la nostra società (o, forse
meglio: molte delle nostre società occidentali) stanno vivendo. Il libro si
articola in tre capitoli focalizzati su quelli che appaiono agli autori i drivers delle grandi fratture che
segnano l’Italia e gli Italiani (divenuti “popolo
di sabbia, fragile per definizione”): (1) la progressiva sottrazione di
sovranità (verso il basso – l’opaco e costoso federalismo – e verso l’alto – gli
algidi organismi sovranazionali); (2) la fine della rappresentanza (la rabbiosa
sudditanza che ha preso il luogo della cittadinanza, esprimendosi in una “’democrazia del pubblico’ televisivo ed
informatico” che ha occupato il vuoto di rappresentanza lasciato dai
partiti); (3) il potere cieco dei mercati (che ha allargato le disuguaglianze,
alimentando il conflitto liquido che si
disperde in molti rivoli).
Come
sempre lo sono gli scritti di De Rita, anche questo è ricco di spunti di
riflessione (che vanno ben al di là delle fulminanti sintesi lessicali,
sempre utilissime e affascinanti) e di indicazioni positive che (“forse per inguaribile ottimismo”)
delineano comunque delicate vie d’uscita.
Nel
raccomandarne la lettura ai pochissimi che si fidano delle mie raccomandazioni
(fra i pochi ma cari che leggono queste note) mi piace sottolineare due punti
del breve volume che mi trovano particolarmente consenziente ed un terzo sul
quale mi sento di affacciare qualche riserva; il primo: la breve ma
centratissima analisi sull’origine del soverchiante debito pubblico italiano (“con i soldi dello Stato il ceto medio
italiano, in una logica assistenziale, ha visto garantiti il proprio benessere
e stili di vita superiori alle proprie possibilità”), sull’urgenza di una
sua “riduzione consistente” e,
infine, sulle misure pensabili per operarla (su queste ometto ogni citazione
perché esse riflettono integralmente quanto io stesso da
tempo mi sono avventurato ad ipotizzare su queste "pagine", facendo perno sul riequilibrio fra
patrimoni familiari e patrimonio dello Stato). Il secondo: la pericolosa
dilatazione delle disuguaglianze reddituali, spesso esasperata fino a livelli
intollerabili. Da questo punto di vista, anzi, le misure di riequilibrio fra
patrimoni personali e patrimonio dello Stato (comunque operate) troverebbero
un’ulteriore giustificazione. Il terzo punto infine è quello sul quale spesso,
quando leggo o ascolto De Rita, non mi sento completamente a mio agio: a mio
sommesso avviso, quando si rivolgono ai
mercati (soprattutto internazionali e finanziari in particolare), le analisi di
De Rita scontano una certa dose di (comprensibile ma non sempre centrato)
pregiudizio culturale, quasi un residuo di retoriche mediatiche non del tutto
raffinato. Faccio qualche esempio: quando si parla di téchne dei mercati finanziari (che con “semplici algoritmi e attraverso applicazioni econometriche che
utilizzano a loro discrezione”….possono “accumulare
in poco tempo ricchezze incalcolabili”); o quando si invoca “la necessità di uscire dalle politiche del
rigore” (ma non avevamo detto quanto abbiamo sintetizzato al punto primo?);
o quando si attribuisce un significato economico (al di là di quello sociale e
di costume, assolutamente condiviso, come detto al punto secondo) alle
retribuzioni apicali, per esempio, dei banchieri; bene, in questi casi, a mio giudizio, si
rischia di confondere i sintomi con la malattia (sulla quale, mi ripeto, le
diagnosi di De Rita e Galdo mi trovano pienamente consenziente).
A parte questa del resto marginale sensazione, il libro mi pare una lettura "saggia", che utilmente distrae dalle "orticarie" del "dibattito" politico corrente.
Roma, 16 febbraio 2014
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