lunedì 10 febbraio 2014

Cupi e luminosi

Il lievito
(di Felice Celato)
Potrebbe apparire una fatuità mondana ma la pizza del week-end con gli amici più “vicini”, questa spesso disordinata occasione di chiacchiere amicali, per me (che proprio mondano non sono), è sempre occasione di riflessione, soprattutto quando si focalizza (come accade più di recente) sul consueto radicale confronto fra pessimisti scontenti del proprio pessimismo (i cupi malgré soi) e ottimisti non del tutto sicuri, però, del loro ottimismo (chiamiamoli i luminosi incerti).
Stavolta mi ha fatto riflettere l’esito della sfida lanciata dai cupi malgré soi ai luminosi incerti: fateci un esempio di cose che vi fanno sperare. L'esempio fatto (che qui non occorre descrivere) può essere assunto ad archetipo delle ragioni dei luminosi: fa sperare tutto ciò che dimostra che, al di sotto di tanto (riconosciuto!) degrado, almeno sopravvivono, per esempio, aree di disinteressata dedizione agli altri, se si volesse usare una terminologia cristiana direi aree di carità, di amor benevolentiae, di agape, di lievito buono, di per sé capace addirittura di trasformare anche una pasta divenuta cattiva; e anche di diventare benefico diffusore di sé.
Bene, da rappresentante dei cupi malgrè soi (cioè forse solo di me stesso), non posso negare il fascino dell'esempio, anche perché certamente non un esempio sconosciuto, anzi da me constatato  con commozione in tante altre manifestazioni, all'interno della mia "settimana". Proviamo allora a far credito a questa prospettiva, quella di chi, cioè, vede almeno in questo lievito la via di salvezza della nostra società.
La vera domanda, allora, è se questi semi di bontà (ripeto, forti e non rari) hanno una qualche probabilità di sopravvivere e dare frutti all'interno della rabbia (talora becera) tanto radicata nella nostra società.
La mia prima risposta sarebbe quella tipica di un cupo malgré soi: mi pare molto difficile, tanto compromesso vedo l'ambiente e tanto avanzato il degrado antropologico (lo segnalo sempre: il termine non è mio, ma del Censis, che sicuramente cupo non è mai e guarda al nostro paese con ampiezza e profondità di riscontri maggiore di quella che posso avere io, dal mio limitato punto di vista).Nella mia ragione "laica" non trovo argomenti sufficienti per arginare la cupezza della risposta. 
Ma – forse perché ho in corso la rilettura di una luminosa enciclica papale (Deus caritas est) – mi viene spontanea una "divagazione" teologica: il fondamento del bene autentico (quel tipo di bene cui alludono i luminosi incerti, nel quale, per usare, stavolta, una terminologia laica e kantiana, l'umanità non viene trattata come un mezzo ma come un fine) non può che essere – nella prospettiva del credente – il Bene, che, per Sua natura, è indefettibile. E allora, come disperare?
Per affezione del “mio proprio” di cupo malgré soi, mi domando: è accettabile che la ragione laica  debba ricorrere ad una ragione teologica per guardare con speranza alle condizioni della nostra società? Non è tutto ciò, già di per sé, una forma di disperazione civile?
Non lo so; ma, pur essendo conscio delle nostre identità plurime, come dice (mi pare) Amartya Sen, non nego una “gerarchia identitaria” (nel senso che io sono e mi sento, per esempio, prima italiano e poi milanista, prima marchigiano e poi romano, etc): e non posso negare di essere prima credente e poi laico (anzi, tanto per provocare i laicisti: sono laico perché sono credente! Ma questa è un’altra storia e ne discuteremo un’altra volta.)
Per ora non mi sento di concedere di più.
Roma, 10 febbraio 2014


Nessun commento:

Posta un commento