Il lievito
(di Felice Celato)
Potrebbe apparire una
fatuità mondana ma la pizza del week-end
con gli amici più “vicini”, questa spesso disordinata occasione di chiacchiere
amicali, per me (che proprio mondano non sono), è sempre occasione di
riflessione, soprattutto quando si focalizza (come accade più di recente) sul
consueto radicale confronto fra pessimisti scontenti del proprio pessimismo (i cupi
malgré soi) e ottimisti non del tutto
sicuri, però, del loro ottimismo (chiamiamoli i luminosi incerti).
Stavolta mi ha fatto
riflettere l’esito della sfida lanciata dai cupi malgré soi ai luminosi incerti: fateci un esempio di cose che vi
fanno sperare. L'esempio fatto (che qui non occorre descrivere) può essere
assunto ad archetipo delle ragioni dei luminosi: fa sperare tutto ciò che
dimostra che, al di sotto di tanto (riconosciuto!) degrado, almeno sopravvivono,
per esempio, aree di disinteressata dedizione agli altri, se si volesse usare
una terminologia cristiana direi aree di carità, di amor benevolentiae, di agape,
di lievito buono, di per sé capace addirittura di trasformare anche una pasta
divenuta cattiva; e anche di diventare benefico diffusore di sé.
Bene, da rappresentante
dei cupi malgrè soi (cioè forse solo
di me stesso), non posso negare il fascino dell'esempio, anche perché
certamente non un esempio sconosciuto, anzi da me constatato con commozione in tante altre manifestazioni,
all'interno della mia "settimana". Proviamo allora a far credito a
questa prospettiva, quella di chi, cioè, vede almeno in questo lievito la via
di salvezza della nostra società.
La vera domanda, allora,
è se questi semi di bontà (ripeto, forti e non rari) hanno una qualche
probabilità di sopravvivere e dare frutti all'interno della rabbia (talora
becera) tanto radicata nella nostra società.
La mia prima risposta
sarebbe quella tipica di un cupo malgré
soi: mi pare molto difficile, tanto compromesso vedo l'ambiente e tanto
avanzato il degrado antropologico (lo segnalo sempre: il termine non è mio, ma
del Censis, che sicuramente cupo non è mai e guarda al nostro paese con ampiezza
e profondità di riscontri maggiore di quella che posso avere io, dal mio
limitato punto di vista).Nella mia ragione "laica"
non trovo argomenti sufficienti per arginare la cupezza della risposta.
Ma –
forse perché ho in corso la rilettura di una luminosa enciclica papale (Deus caritas est) – mi viene spontanea
una "divagazione" teologica: il fondamento del bene autentico (quel
tipo di bene cui alludono i luminosi incerti, nel quale, per usare, stavolta,
una terminologia laica e kantiana, l'umanità non viene trattata come un mezzo
ma come un fine) non può che essere – nella prospettiva del credente – il Bene,
che, per Sua natura, è indefettibile. E allora, come disperare?
Per affezione del “mio
proprio” di cupo malgré soi, mi
domando: è accettabile che la ragione laica
debba ricorrere ad una ragione teologica per guardare con speranza alle
condizioni della nostra società? Non è tutto ciò, già di per sé, una forma di
disperazione civile?
Non lo so; ma, pur
essendo conscio delle nostre identità plurime, come dice (mi pare) Amartya Sen,
non nego una “gerarchia identitaria” (nel senso che io sono e mi sento, per
esempio, prima italiano e poi milanista, prima marchigiano e poi romano, etc):
e non posso negare di essere prima credente e poi laico (anzi, tanto per
provocare i laicisti: sono laico perché sono credente! Ma questa è un’altra
storia e ne discuteremo un’altra volta.)
Per ora non mi sento di
concedere di più.
Roma, 10 febbraio 2014
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