27 gennaio 1945
(di Felice Celato)
Nell’imminenza del Giorno della Memoria, prima che risuonino alte e in coro le ipocrisie di ogni giorno (qualcuno ha scritto: quanti sarebbero scesi in piazza a Parigi se fossero morti solo gli ebrei del negozio kosher?), come personale omaggio alla straordinaria cultura e alla vicenda tragica del popolo ebraico, vorrei ricordare questa macchia della storia dell’umanità (e fors’anche della cristianità) con alcune parole sparse, tratte tutte da quel meraviglioso racconto di sole 20 pagine che è il grido di Yossl Rakover, dal ghetto di Varsavia il 28 aprile del ‘43 (Zvi Kolitz: Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, 97, già citato su questo blog nel febbraio 2013):
Noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo il diritto di sapere: dove si trovano i confini della Tua pazienza?....Che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo?
Quanto a me, Ti dico queste parole perché io credo in Te, perché credo in Te più che mai, perché ora so che sei il mio Dio, poiché di certo non sei, no, non puoi essere il Dio di quanti, con le loro azioni, hanno dato la prova più atroce di empietà in armi. Se non sei il mio Dio, di chi sei allora il Dio? Il Dio degli assassini?.....
Tra un’ora al massimo sarò con la mia famiglia, e con milioni di altri uccisi del mio popolo, in quel mondo migliore in cui non vi sono più dubbi e Dio è l’unico pietoso sovrano…..
E più oltre:
Il mio rebbe soleva raccontarmi la storia di un ebreo che era sfuggito con la moglie e il figlio all’Inquisizione spagnola, e con una piccola barca, sul mare in tempesta, aveva raggiunto un’isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise sua moglie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l’ebreo proseguì il suo cammino sull’isola rocciosa e deserta, e si rivolse al suo Creatore con queste parole:
«Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato, per obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà! ».
E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d’ira: Non Ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te. Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.
A 70 anni dalla liberazione del campo di Auschwitz (27 gennaio 1945) mi piace pensare con reverenza alle preghiere dei tanti che vi hanno trovato la morte.
Roma, 24 gennaio 2015
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