Siena, Perugia, Roma
(di Felice Celato)
Mi hanno molto colpito, in questi ultimi giorni, due fatti tra loro assolutamente scollegati e diversi: quello del piccolo imprenditore umbro che uccide e si uccide per esprimere la sua collera contro un’istituzione (la Regione Umbria) e quello del capo della comunicazione del Monte dei Paschi che si getta da una finestra della banca.
Lungi da me l’abominevole intenzione di discettare su storie tragiche che apprendiamo confusamente solo dalle cronache, per tranciare analisi che non potrebbero che essere superficiali e supponenti.
Solo mi preme riflettere, nella scia di quanto dicevamo nell’ultimo post, su due particolari delle vicende che, in qualche modo, le rendono significanti anche nelle loro componenti mediatiche.
Da un lato, l’intervista all’imprenditore umbro realizzata da due studenti della scuola di giornalismo di Perugia qualche giorno prima del suo accesso di follia (l’ho sentita per radio e, quindi, non ho avuto modo di ascoltarla che una sola volta): una lagnanza ossessionata e drammatica nei toni e nelle parole; non diversa però dalle tante invettive che quotidianamente ascoltiamo nelle interviste “alla gente comune”, rabbiose, sprezzanti, sommarie, giudicanti.
Dall’altro, l’inevitabile citazione degli effetti devastanti di sospetti, pettegolezzi ed insulti che “girano in rete”, contro tutti e contro tutto sulle vicende (sicuramente non commendevoli) della banca senese; non diversi però dalle tante opinioni istantanee che su tutto vengono diffuse dalle moltitudini di partecipanti al folle gioco della distruzione mediatica, in forma spesso anonima ma sempre e comunque lapidaria.
Sbaglierò ma non vedo soluzioni di continuità nel tessuto connettivo che unisce queste furie censorie spesso a-cognitive e il supporto psico-sociologico di cui godono i tanti populismi che scuotono la nostra scena politica, talora rincorsi anche da chi dovrebbe avere, per cultura, passato ed esperienze, più sperimentata saggezza nella gestione delle “pubbliche opinioni” in cui si stanno dissolvendo i nostri corpi intermedi.
E’ fin troppo ovvio che il brodo di coltura in cui si determina questo pullulare di pulsioni distruttive deve avere una ragione, un fondamento fattuale, e un fondamento non certo impalpabile, nella società e nei tempi che viviamo: ma, mi domando (anzi, torno a domandarmi, angosciato), questa malvissuta dimensione biomediatica (per dirla con De Rita), che sembra essere divenuta la nostra unica dimensione, non sta forse macinando in profondità anche la nostra convivenza? Non siamo veramente diventati immunodeficienti di fronte alle capacità infettive dei nostri linguaggi?
Anche la Chiesa sembra esitare persino di fronte alla semplice scelta della data del Conclave, bersagliato da annunci di “rivelazioni”, da notizie di nuovi “corvi”, opachi depositari della “trasparenza”, da intimazioni di dimissioni o di defezioni rivolte a questo o a quell’altro cardinale perché, conosciuto il peccato, non l’ha trattato come reato (ovviamente sbagliando, talora gravemente).
Tutto si confonde, si mescola in un pentolone ribollente e maleodorante, nel quale facciamo sempre più fatica a distinguere la carne bruciata dal fumo che da essa si solleva. E, nelle tempeste gutturali, si sfalda ogni giorno quel minimo livello di fiducia collettiva che dovrebbe costituire il collante essenziale di una società. Sarà il caso di domandarsi come arrestare la deriva?
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