domenica 5 gennaio 2025

Tempus regit actus

Divagazioni latine

(di Felice Celato)

Tempus regit actum  (insegnano i giuristi processualisti), per intendere che ogni atto va valutato  secondo la disciplina vigente al momento del suo compimento; ma oggi – chissà perché – mi viene in mente di mettere actum al plurale (actus, accusativo plurale), liberamente traducendo così: il tempo (per noi uomini: l’età) “governa” gli atti. Me ne accorgo soprattutto (ma non solo, purtroppo!) quando gioco a golf! Il tempo governa la qualificazione dei nostri atti! Benedetto il tempo, che ci dà continuamente la misura del suo decorrere... ricordandoci che fugit irreparabile tempus (diceva Virgilio).

Roma 5 gennaio 2025

martedì 31 dicembre 2024

HAPPY NEW YEAR

Il finto proverbio cinese per il 2025

(di Felice Celato)

Sarà difficile l’anno che viene, inutile nasconderselo; difficile ed enormemente rischioso, come ci scrivono, con solidi argomenti, i nostri commentatori più seguiti; inutile – anzi: addirittura altamente dannoso per l’umore – fare, qui, un analitico censimento delle inquietanti correlazioni che collegano fra loro gli scenari dei vari mondi di cui facciamo parte (la Terra, infestata da prepotenze e da violenze fisiche e verbali; il genere umano, tanto spesso dimentico di se stesso; l’Europa sull’orlo di una  folle crisi identitaria; il nostro povero Paese, galleggiante nella banalità dei suoi slogan ad uso di menti pigre).

Nello sconforto del contesto, mi soccorrono – per mia e nostra fortuna – le parole con le quali si chiude la monumentale Introduzione al Cristianesimo di Joseph Ratzinger (qui tante volte citata): Chi crede sa che si va “avanti”, non si gira intorno. Chi crede sa che la storia non assomiglia alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per venir continuamente disfatta. Anche il cristiano potrà essere assalito dagli incubi angoscianti, dell'inutilità di tutto […]. Ma nel suo incubo penetra la voce salvifica e trasformatrice della realtà: “Coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv. 16,33). Il mondo nuovo, raffigurato nell'immagine della nuova Gerusalemme con cui termina la Bibbia, non è un'utopia, ma una certezza a cui andiamo incontro nella fede. C'è una redenzione del mondo, ecco la ferma fiducia che sostiene il cristiano e che lo convince che anche oggi vale la pena di essere cristiano.

Direi che basta e avanza per avviarci al Nuovo Anno, magari oppressi ma non schiacciati, sconvolti ma non disperati (2 Cor. 4,8).

Infine, per salutarci e farci un piccolo ma decisivo augurio “pratico”, attingo, dal bel libro di un raffinato intellettuale Italiano che vive ed insegna a New York (Antonio Monda, Incontri ravvicinati, La Nave di Teseo, 2024), questa citazione  presa dalle sue memorie familiari (un finto proverbio cinese utilizzato dal padre coi figli): sei io ti do una cosa e tu me ne dai un'altra, alla fine ne abbiamo una entrambi. Ma se io ti do un'idea e tu me ne dai un'altra, alla fine ci ritroviamo entrambi con due idee. Ecco: che il 2025 ci arricchisca di scambi di idee (e anche che lo Spirito Santo ci aiuti a distinguere quelle che è bene trattenere in noi da quelle di cui possiamo tranquillamente disfarci)!

Roma, 31 dicembre 2024

 

giovedì 19 dicembre 2024

Natale 2024

 Rigenerazione

(di Felice Celato)

Ancora una volta al Natale che viene chiediamo una cosa, sempre nuova ed antica, di cui, in quest’anno terribile per il mondo, sentiamo (credo tutti) forte il bisogno, mai così forte, in questi anni recenti, come oggi: una rigenerazione. 

Ci pare (mi pare) forse di meritarla (in fondo, magari a Natale, ci sentiamo più buoni); ma non ne sono del tutto sicuro perché – se nulla possiamo sui minacciosi scenari esogeni – almeno qualcosa di meglio, nel contesto in cui più prossimamente viviamo, potremmo forse fare anche noi: per esempio esercitare quotidianamente quell’azione di discernimento (QUI ci vuole!) che ci renderebbe meno gregari, magari inconsapevoli, magari per pigrizia o per il fastidio di dire sempre il contrario di ciò che sentiamo dire; ma, ciò nondimeno, non meno colpevoli, quando fossimo certi – e io, molto immodestamente, ne sono certo – di disporre delle risorse mentali e spirituali per gridare “basta!” al comunismo delle manipolate opinioni prevalenti, fatte di slogan e di volontarie  proposte di facile fraintendimento. 

Ma a Natale anche il “basta!” stonerebbe; e così – per chi crede – meglio godersi il senso profondo dell’eterna scommessa che Dio ogni anno rinnova sull’uomo, sapendo – e come potrebbe Lui non saperlo? – che ancora una volta la perderà, perché nessun altro meglio di Lui sa che siamo fatti di fango; e che – per quante Risurrezioni abbiamo già vissuto – abbiamo sempre bisogno di una nuova redenzione, quella che il Bambino, venuto ad abitare fra di noi, ogni anno ci lascia intravvedere dalla grotta di Betlemme (mi hanno sempre colpito quelle immagini sacre che ritraggono il Bambino che già mostra la Croce).

Allora come non concludere questo rituale – ma non per questo meno affettuoso – augurio di Buon Natale con una riflessione (tratta dal Messaggio Urbi et Orbi del 25 XII 2010) di quel maestro nella fede che è stato (certamente per me) il grande papa Benedetto XVI? 

“Il Verbo si fece carne”. Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo. In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà. Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. E’ in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio. 

Al Logos venuto in mezzo a noi, chiediamo di non abbandonarci a noi stessi, nonostante tutto; nella certezza che non lo farà.

Roma, 19 XII 24

domenica 8 dicembre 2024

Pragmatismo

Ansia di comprensione

(di Felice Celato)

Questo post non è il frutto di una compiuta riflessione ma, come dice il titoletto, il frutto di un’ansia di comprensione; vorrei cioè capire – cosa che non mi è finora riuscita – che cosa si voglia veramente dire quando, sempre più frequentemente, si sente dire che la “bussola” di una politica (o di una parte politica) è il pragmatismo. Devo intendere – volendo far credito a questi affascinanti orientamenti e saccheggiando dai riferimenti filosofici che ho trovato sfogliando l’Enciclopedia Treccani – che per pragmatismo si intenda (nel migliore dei casi) l’atteggiamento che consiste nel privilegiare i risultati concreti, le applicazioni pratiche di ciascuna azione politica più che i principi o i valori ideali (che potrebbero costituire "l’ingombrante" fardello di ogni impostazione ideologica, magari della parte avversa).

E (direi: certamente) in larga misura un sano pragmatismo (come sopra inteso) è cosa buona e giusta, quando si tratta di scegliere fra una cosa buona (l’azione politica secondo ragione) e una cosa cattiva (l’azione politica non conforme alla ragione). [Del resto, diceva Benedetto XVI in un memorabile discorso di ben altro livello, non agire secondo ragione, σὺν λόγω, è contrario alla natura di Dio].

Ma mi domando (e vi domando, miei lettori): quale sarebbe, in politica, la cosa buona e giusta quando si tratta di scegliere fra beni diversi (al plurale) e fra mali diversi (al plurale) di un’azione politica? E ancora: fra beni di oggi e mali di domani invece che fra mali di oggi e beni di domani? [Faccio un esempio tratto dalle vicende recenti del nostro paese (i famosi super-bonus edilizi): fra un bene di oggi (il presidio della produzione del benessere, con un forte stimolo alla tenuta del famoso PIL, in un momento di grave crisi come lo furono le conseguenze economiche del Covid) e un male di domani (l’erosione delle entrate fiscali future)].

Certo, se l’azione politica consiste nell’amministrare il presente secondo ragione, un sano pragmatismo non può che essere una buona cosa, un saggio proposito. Ma se l’azione politica si affaccia sul futuro e sulla necessità di scegliere fra diversi beni o fra diversi mali, o (mi ripeto) fra beni di oggi e mali di domani, il sano pragmatismo non basta: ci vuole un certo progetto sul futuro della comunità che si dovrebbe guidare (questa è la leadership); e per fare un progetto ci vuole una visione del futuro (una vision, direbbero gli americani); e, ancora, per avere una visione sul futuro occorre avere un’idea di cosa è bene e di cosa è male per una comunità; e, in democrazia, sarebbe necessario comunicare con chiarezza questa visione a chi, in fondo (e senza affatto mitizzarne la saggezza), detiene il potere di determinare la scelta progettuale, cioè – nel nostro discorso – la scelta fra i diversi beni (al plurale) perseguibili e fra i diversi mali (al plurale) da scongiurare. Del resto, scrive il Censis, fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro. Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici (e questo, aggiungo io, non vale certo solo per chi è al governo!).

Capiranno bene, i miei lettori più intelligenti di me, che alla luce di queste considerazioni e di tante altre che potrebbero farsi al riguardo, urge capire se il sano pragmatismo come bussola della politica sia veramente la virtù (perché di virtù si tratta, beninteso) di cui abbiamo più bisogno per non solo galleggiare (copyright Censis).

Roma, 8 dicembre 2024, Immacolata Concezione e seconda domenica di Avvento

 

 

 

domenica 17 novembre 2024

Vènti e rotte

Una lettura nostalgica

(di Felice Celato)

Se è vero che l’incertezza del futuro è una costante delle nostre esistenze, è anche vero però, come diceva Seneca, che ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est (nessun vento è favorevole per chi non sa verso quale porto dirigersi). E questa mi pare la condizione del nostro mondo occidentale, questa simbiosi geopolitica ed economica che, come recita l’Enciclopedia Treccani, abbraccia un'estesa area che include le nazioni più ricche e industrializzate dell'Europa e dell'America, nonché l'Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone, e quei paesi accomunati, almeno idealmente, da determinate caratteristiche economiche e politiche: stato di diritto, liberalismo, liberismo economico, multipartitismo, tutela delle libertà fondamentali (di espressione e di associazione ecc.), sentite come l'eredità della democrazia e del pensiero razionalista sviluppatisi principalmente attraverso le vicende storico-culturali dell'Illuminismo e delle rivoluzioni americana e francese.

Ebbene, questo nostro mondo, in cui per quasi ottanta anni abbiamo vissuto senza prolungate e drammatiche scosse, sembra avvolto in una nebbia (di istanze gridate, di promesse o di minacce, di pulsioni e di irresistibili  pruriti) che non solo nasconde ogni porto ma ci induce  ad abbandonarci ad ogni vento, perché di ciascun vento cogliamo, per qualche tempo, la spinta che ci pare irresistibile. E all’interno di questo mondo, il nostro micro-cosmo Europeo (che si è fatto, come scriveva Joseph Ratzinger, attraverso la fede cristiana che porta in sé l'eredità di Israele, ma insieme accogliendo in sé il meglio dello spirito greco e romano) sembra anch’esso confuso quant’altro mai nella sua più breve storia recente; da un lato, quasi incapace di auto-riconoscersi nella meravigliosa impresa di pace e di progresso iniziata a valle della immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale; e, dall’altro, forse incapace di porre mano a quant’occorra fare per preservarne il valore.

In questo tempo così oscuro mi colpisce ogni giorno (soprattutto da noi) il contrasto fra la complessità e l’insicurezza degli scenari, da un lato, e, dall’altro, la semplificazione che sembra, da ogni parte, essere domandata alla politica e che da questa viene offerta a piene mani, attraverso slogan al posto dei ragionamenti, illusioni al posto delle realtà, semplificazioni al posto delle complessità di molti problemi, temporanee vie d’uscita al posto di soluzioni lungimiranti.

In questo mood inquieto è venuta a collocarsi una lettura in qualche modo nostalgica: di Giuseppe De Rita, Oligarca per caso (Solferino, 2024). Si tratta, in fondo, di un libro di memorie di tempi recenti, pervaso da una più che giustificata soddisfazione per il lavoro fatto, scritto da uno dei nostri grandi vecchi che ha percorso una vita a domandarsi come siamo fatti noi italiani, analizzando attentamente le morfologie delle nostre aggregazioni sociali, per coglierne i profondi significati, le insite dinamiche, i valori che esse esprimono e anche i limiti che esse manifestano. Una lettura che raccomando, soprattutto a chi, come me, …dal presente trae un flusso di nostalgie (di idee, di persone, di metodi).

La tesi cui allude il titolo è che De Rita è stato, a suo modo e con fierezza, un oligarca (in questo senso: l'oligarca ha un tessuto di potere che non dipende da un mandato verticale che cala dall'alto: quello è il gerarca, il cui potere finisce quando cade il suo dante causa. Il potere dell'oligarca sta nella capacità di tessere rapporti in linea orizzontale con quelle cento-duecento persone che in un sistema complesso possono sì regolare singole materie, ma hanno sempre bisogno di confrontarsi con gli altri). 

Da questa tessitura può nascere una felice azione politica, quando si coniuga con l’intenzionalità (cioè: con la voglia di raggiungere un obiettivo preciso agendo di conseguenza) che dovrebbe essere propria dell’agire politico (e De Rita ricorda nel libro i suoi tanti no alla politica). Ma questo è un discorso diverso che chiama in campo, non solo la tessitura di rapporti in linea orizzontale di cui l’oligarca è capace, ma soprattutto la sua capacità di aggregare il consenso, strutturato e competente, di cui l’agire politico dovrebbe nutrirsi. 

Ce ne è abbastanza, credo, per non dover giustificare la nostalgia della quale mi si è connotata la lettura del libro di De Rita.

Roma, 17 novembre 2024

 

 

martedì 5 novembre 2024

Letture di soccorso

Un discreto successo

(di Felice Celato)

Nell’appena decorso decimo mese di quest’anno così deprimente, ho praticato con discreto successo la difficile arte dell’auto-estraniamento, cioè della consapevole fuga da quanto si viene svolgendo attorno a noi, nel mondo tempestoso, nell’Europa confusa e balbettante (rectius: fra i membri dell’UE confusi e balbettanti), nell’Italia annegata in un mare di beghe, di ecolalie e di verbigerazioni spacciate per dialettica politica, di assillanti propagazioni all’insegna del semplicismo, talora irenico, talora tensivo.

E, come mi accade in casi del genere, devo il discreto successo di questo (sempre più spesso attraente) esercizio di auto-estraniamento, ad una felice coincidenza di letture impegnative ed assai interessanti, affrontata con ossessiva continuità.

Ove mai qualcuno dei miei lettori condividesse questa esigenza di fuga dal corrente, a suo beneficio provo qui ad elencare, con brevissimi cenni, alcune delle migliori “medicine” che mi sono auto-propinato, tralasciando le due o tre dell’area letteraria (che pure, però, avevo scelto, con ansia di fuga, nella produzione più recente di ben noti scrittori amanti del surrealismo metafisico, quali Haruki Murakami ed Eric Emmanuel Schmitt).

Eravamo fermi, ad inizio mese, al testo di Bernard-Henry Levy (La solitudine di Israele, di cui all’ultimo post) che però – ratione materiae et temporum – era tutt’altro che estraniante; siamo passati per Murakami e Schmitt; e siamo approdati a:

  • Felice, Flavio: Wilhelm Ropke (IBL, 2024, ebook): un saggio molto interessante, ma anche molto complesso, sul pensiero di uno studioso tedesco della corrente Ordo-liberale (cioè della difesa di un'economia fondata sulla libera concorrenza, la lotta ai monopoli, l'intervento pubblico alla sola condizione che sia conforme alla esigenza di salvaguardia del mercato come unica fonte di produzione del benessere). Noi crediamo.... scrive l'autore che per una comprensione il più possibile culturalmente onesta delle ragioni che hanno condotto il nostro paese a intraprendere alcune strade piuttosto che altre, andrebbe considerata anche l'influenza, benché per alcuni ritenuta marginale e forse proprio perché marginale, di un autore come Ropke che seppe parlare della crisi del suo tempo, ma che crediamo abbia ancora molto da dire anche sulla crisi del nostro.
  • Matteoli, Michela: La fioritura dei neuroni (Sonzogno, 2024, ebook): un breve ed interessantissimo saggio sui fondamenti cerebrali della convivenza, sui meccanismi del cervello e sulle “modalità” per preservarne nel tempo l’efficacia (capiranno da questo, i miei lettori, perché il testo mi ha così preso).
  • Busi, Giulio: Giovanni – Il discepolo che Gesu’ amava (Mondadori, 2024, ebook): il libro muove da un’ottica particolare: il Vangelo secondo Giovanni è riletto - da un non biblista ma, allo stesso tempo, profondo conoscitore della letteratura specialistica – nel faticoso itinerario spirituale ed intellettuale  del suo tormentato autore, nel corso della definitiva composizione del testo, attorno all’anno 110 e in Efeso; la figura di Giovanni non coincide con quella canonica (che identifica Giovanni Evangelista nella persona dell’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo) ma con quella – ben nota gli specialisti e da molti ritenuta autentica – di  un non meglio identificato Giovanni il Presbitero, apostolo anche lui (non uno dei dodici però, ma, anche lui, testimone diretto di quello che narra e, ovviamente, a conoscenza delle narrazioni sinottiche), appartenente alla casta sacerdotale di Gerusalemme, e perciò in grado di cogliere con maggiore profondità molte delle sfumature del linguaggio di Gesù e delle loro implicazioni. 
  • Ravasi, Gianfranco: Ero un blasfemo, un persecutore e un violento (Raffaello Cortina editore, 2024): una biografia a tutto tondo di San Paolo, ricostruita attraverso le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli, un libro di grande spessore culturale, scritto da un sommo biblista, anche con grande cura del lettore; un testo eccellente che raccomando a tutti.... ancorché non ossessionati (come me) dalla voglia di distanza dalla pericolosa banalità del presente.

Roma 5 novembre 2024

 

 

 

 

 

sabato 5 ottobre 2024

7 ottobre

 Solitudine di Israele

(di Felice Celato)

In mezzo al rumore delle parole (e speriamo solo delle parole!) col quale il mondo commenterà l’anniversario del pogrom del 7 ottobre 2023, col tutto il suo carico di violenza, d’improvviso perpetrata e – per voluto converso – suscitata, mi pare saggio segnalare un denso libro di Bernard-Henry Levy (La solitudine di Israele, La Nave di Teseo, 2024) che aiuta nel desueto esercizio del riflettere con uso di memoria e di coscienza: questa guerra è una guerra atroce che gli israeliani non hanno voluto. Il loro è un nemico terribile, il cui desiderio proclamato è quello di poter mostrare non solo il maggior numero possibile di morti ebrei, ma, in quello stesso campo, il maggior numero possibile di martiri.

Nel breve corso del libro (170 piccole e nitide pagine) ho ritrovato raccolti i pensieri che la singolare, inquieta storia di Israele mi ha sempre suscitato e che – credo – non può non suscitare in chi sappia guardare ad essa con l’animo disposto a riconoscerne la bellezza, l’originalità e la forza ideale, fra le tante vicende che le hanno insidiate; e i sentimenti di chi, innamorato dell’anima ebrea, abbia saputo coglierne la tormentata sopravvivenza anche di fronte alla (perenne) minaccia esistenziale che non ha, dinnanzi a sé, che una sola scelta, la scelta irrinunciabile di continuare ad esistere.

Si tratta di un libro complesso, cólto (come è ovvio attendersi da B-H. Levy), appassionato e commovente, che va letto con calma (anche perché scritto con una prosa spesso complessa); e che va meditato giorno per giorno, mentre si dipanano nelle cronache e nei commenti le banali trappole del buonsenso (i tanti sì, ma) che sembrano orientate alla decostruzione dell’evento (il 7 ottobre), le astratte petizioni di un cessate il fuoco pur che sia, le finte saggezze del giorno dopo ( qual è il piano di uscita?) mentre Israele affronta, dicevamo poco fa, la minaccia esistenziale, seguendo con fermezza la scelta irrinunciabile di continuare ad esistere.

Particolarmente toccante mi è risultato l’ultimo capitolo (Se ti dimentico, anima ebrea), una sorta di doloroso compianto sulle tensioni  che, da sempre, nella storia ed oggi, screziano l’anima ebraica (solo di essa?): facci un vitello d'oro, chiedevano le tribù di Israele; facci un Dio che cammini davanti a noi; facci un idolo che ci dispensi tutti e ciascuno dallo sforzo di pensare…. Ma, scrive B-H. Levy, nonostante tutto, l'anima, la mente e il genio dell'ebraismo sono saldi nella tempesta. Ma dimenticateli e non sarà la mano ma il cuore di Israele a inaridirsi.

Un inno di amore dolente e problematico che poco si presta ad essere riassunto nelle poche righe di un post.

Roma 5 ottobre 2024