sabato 29 febbraio 2020

Il virus e le corone

Debolezze dello spirito cooperativo
(di Felice Celato)
Ai lettori più attenti di queste povere note non sarà sfuggito che, nel segnalare il bel libro di Salvatore Rossi (la Segnalazione “triste” di qualche giorno fa), avevo fatto cenno al fil-rouge sociologico/istituzionale che l’autore tracciava per spiegar(si) la tara che rode dall’interno la politica economica italiana (la debolezza dello spirito cooperativo, insita persino nella carta costituzionale, probabilmente – aggiungeva Rossi – sin dal momento fondativo originario della repubblica).
Sono troppo lontani i miei studi di diritto costituzionale e di storia della Costituzione per poter maturare una personale opinione su questa audace spiegazione degli atavici problemi della nostra politica economica; e poi, io sono spesso propenso a darmi spiegazioni culturali ed antropologiche più che istituzionali, anche se so bene che la buona natura delle istituzioni aiuta a contenere le inclinazioni di coloro che le incarnano o ne sono governati; però mi pare più facile pensare che cittadini e governanti saggi sappiano far funzionare istituzioni imperfette (magari via via aggiornandole e migliorandole), piuttosto che cittadini e governanti fatui sappiano ben servirsi di istituzioni perfette (quand’anche ne esistano).
E tuttavia confesso che la considerazione di Salvatore Rossi mi è tornata alla mente mentre cercavo di dipanarmi nella furiosa confusione di queste giornate da quasi-appestati che il Governo Umanista e le regioni quasi-appestate hanno confezionato per il nostro Paese, del resto così proclive ad ogni emotiva esaltazione di ciò che lo distrae dai suoi veri problemi. 
Ciò che più mi ha colpito della vicenda coronavirus/Italia è il concorso verso l’apparire della determinazione, intesa come evidenza di vigoroso operare e, allo stesso tempo, come disclaimer contro ogni possibile accusa di colpevole inerzia, con l’occhio fisso sui possibili utilizzi (che ovviamente non sono mancati) a fini politicanti sui quadranti più disparati (c’è stato persino chi ha colto l’occasione per invocare la chiusura delle frontiere con l’Africa; così, per cautela).
Senza alcuna considerazione degli effetti propri di ogni allarme sociale, Governo, Regioni e, talora, Comuni, hanno operato per drammatizzare ciò che contemporaneamente proclamavano non meritevole di suscitare inutili allarmismi, in una rincorsa verso la radicalità dei provvedimenti che talora ha suscitato serie perplessità (non prive, talora, di effetti comici); in ciò potentemente aiutati dalla info-demia che ha assorbito ogni spazio dell’informazione per distribuire l’ossimoro dell’allarme non allarmante. Non a caso qualcuno sta già giustamente parlando di piromani improvvisamente convertitisi in pompieri, a mano a mano che risultavano evidenti le ovvie implicazioni (per noi disastrose) che ogni allarme sociale diffuso crea, non solo fra i cittadini destinatari di contraddittori messaggi ma anche, inevitabilmente, in chi col nostro turbato Paese intrattiene quotidiani rapporti di interscambio, economico e relazionale, fatti di circolazione di persone, beni, servizi e capitali.
Senza sottovalutare in alcun modo l’importanza relativa del problema che tutto il mondo, in forme diverse, probabilmente si avvia a vivere per qualche tempo, mi vengono in mente due provvisorie osservazioni. La prima: l’Italia ha mostrato una fragilità emotivo-istituzionale cui ben si attaglia il sospetto di debolezza (grave) dello spirito cooperativo di cui parlava Rossi nel rassegnare i fallimenti della politica economica dell’ultimo cinquantennio (e, in materia sanitaria, l’art. 117 della Costituzione è certamente più “concorrente” che in materia di politica economica); che si tratti poi di una evidenza connessa alla natura delle sue istituzioni o alla struttura antropologico-culturale del suo capitale umano è cosa, in fondo, al momento, di minore importanza. La seconda: la natura di problemi come il presente (o come altri analoghi che potrebbero sorgere) è tale da ribadire con forza che il mondo in cui viviamo necessita – invece che di “corone” per improbabili sovranismi nazionali (anche in funzioni antivirali) – di un salto ulteriore nella dimensione globale (starei per dire: sovranazionale) del nostro vivere contemporaneo, dove problemi e soluzioni siano adeguate alla “densità” della popolazione del mondo (siamo quasi 8 miliardi di umani, più del doppio di quanti eravamo cinquant’anni fa!) ed alla (per fortuna!) inevitabile circolarità delle sue interrelazioni.
Roma 29 febbraio 2020

Nessun commento:

Posta un commento