Storie economiche
(di Felice Celato)
Può sembrare singolare raccomandare una lettura avvertendo, nel contempo, che trattasi di una lettura triste. Ma francamente non ho saputo trovare altro sentimento per rappresentare il senso di un denso libro, a metà fra la storia e l’economia, di un autore qui più volte citato e sempre apprezzato per competenza, chiarezza e lucidità delle analisi: si tratta di La politica economica Italiana dal 1968 ad oggi, di Salvatore Rossi, edito da Laterza (2020).
Come si capisce dal titolo, si tratta di una breve storia (poco più di 200 pagine) di un lungo malessere (e del conseguente lungo mal fare) della nostra politica economica nell’ultimo cinquantennio; una storia ragionata, che solo in alcuni brevi tratti richiede qualche conoscenza tecnica delle materie trattate. Mi fermo allora brevemente su quello che mi pare il senso ultimo del libro (anche perché l’analisi delle varie fasi politico-istituzionali mal si presta ad essere riassunta anche a grandi tratti); dice, in sintesi, Salvatore Rossi: Le disparate vicende della politica economica italiana dal 1968 ne mostrano la ricorrente condizione di ritardo, di affanno, di incoerenza, di inefficacia, in casi non rari di dannosità. Questo, nel giudizio a posteriori. Quanto alle valutazioni dei contemporanei, avvertimenti che si stesse procedendo su strade sbagliate sono spesso venuti solo da poche, sparute cassandre. Le politiche praticate hanno sempre raccolto il consenso della maggioranza dei cittadini, espresso nelle forme compiute della democrazia rappresentativa. Nessun dittatore cieco o malevolente può essere incolpato degli errori commessi. Tuttavia, il tasso di inefficacia/ dannosità delle politiche economiche osservato in Italia è visibilmente più alto di quello rilevabile nello stesso periodo in molte democrazie a economia di mercato. Si annida in Italia un peculiare malfunzionamento del sistema di governo dell’economia che va portato allo scoperto, capito, spiegato.
Per questo malessere ( e conseguente mal fare), l’autore trova, nel lungo periodo considerato, anche un fil-rouge sociologico/ istituzionale (o costituzionale, in senso lato) che costituisce, alla fine, l’elemento più preoccupante del libro: la debolezza dello spirito cooperativo, insita persino nella carta costituzionale, che ha finito per “bacare” con equanime intensità governi di qualunque segno politico; da noi (ed è questo il malessere, questa la tara, che rodono dall’interno la politica economica italiana)…le istituzioni dell’economia e della politica, dalla più piccola alla più grande, si concatenano in modo tale da fornire sempre gli incentivi sbagliati, cioè quelli contrari all’obbiettivo benessere sociale che pure ci si prefigge. A ciò si aggiungono: un’amministrazione figlia di certa cultura giuridica degenere, illiberale, incentrata sul formalismo, sulla negazione del mercato, sulla noncuranza per la dimensione dell’efficienza; e un capitale sociale disponibile – cioè quel patrimonio culturale fatto di civismo, fiducia e attitudine alla cooperazione nella società che può facilitare il mutamento istituzionale continuo – …relativamente basso, o almeno distribuito difformemente sul territorio.
Mi fermo qui, in questa supersintesi del senso del libro, che non può non risultare mortificante per la ricchezza del testo (e di questo dovrei chiedere scusa all’autore); credo, comunque, di aver spiegato a sufficienza perché questa è, inevitabilmente, una segnalazione “triste”; di un libro, peraltro, che trovo doveroso raccomandare ai miei venticinque lettori in cerca di spiegazioni.
Roma, 19 febbraio 2020
P.S.Per mitigare la tristezza della storia e dei suoi significati, anche sforando ampiamente il limite delle 750 parole, riporto volentieri due belle citazioni che ho trovato nel testo, entrambe ricche di insegnamenti.
La prima è di Luigi Einaudi, dal Corriere della sera del 16 aprile 1961, e costituisce una magistrale sintesi del sentire liberale di questo grande statista così tanto dimenticato (e costituisce anche, forse, la mappa della strada che non abbiamo percorso): Noi uomini politici non siamo stati educati a fare il mestiere degli agricoltori, degli industriali, dei commercianti. Il nostro mestiere è un altro: quello di costruire l’edificio giuridico entro il quale e nei limiti del quale agricoltori, industriali e commercianti debbono operare e muoversi affinché l’opera dei singoli sia feconda di beni ad essi e alla collettività e contribuisca all’elevazione dei meno fortunati […]. Costruire la cornice dell’azione economica e sociale degli uomini è per sé sola già troppo ardua impresa, assai più difficile dell’agire, perché se ne possano aggiungere altre.
La seconda citazione invece – più curiosa – è da un non meglio identificato scritto di John Maynard Keynes, nientemeno del 1919, quando non avevamo ancora imparato ad usare il tanto vituperato termine di globalizzazione credendo che si tratti di una perniciosa novità “inventata” nei nostri ultimi decenni:
Chi straordinario episodio del progresso dell’uomo è stata quella età che si chiusa nell’agosto del 1914 […]: un abitante di Londra poteva ordinare per telefono, sorseggiando a letto il suo tè del mattino, i più vari prodotti dell’intero pianeta [….]. Allo stesso tempo, e con lo stesso mezzo, egli poteva avventurarsi a investire le sue sostanze in risorse naturali o in nuove iniziative imprenditoriali di ogni angolo del mondo […]. Poteva anche, se lo desiderava, cambiare prontamente paesaggio o clima, con mezzi di trasporto confortevoli e a buon mercato, senza passaporto o altre formalità.
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