venerdì 27 marzo 2015

I buchi neri della mente

Latent failures
(di Felice Celato)
Eccoci qua, a distanza di poco più di tre anni, a rivivere lo stupore tragico delle “latent failures del carattere, della preparazione, della tempra umana”, i latenti cedimenti della mente di cui parlammo all’epoca del naufragio della Concordia (Demoni e santi, post del 18 gennaio 2012).
Tutte le procedure di sicurezza, per quanto estremamente attente come quelle della sicurezza aerea, hanno le loro tecniche latent failures, cioè dei buchi nascosti per i quali, ad esempio, ciò che serve a prevenire incursioni in cabina di pilotaggio può improvvisamente diventare il meccanismo che consente a chi sta dentro di isolarsi dal resto dell’equipaggio.
Ma il disastro aereo dei Trois-évechés riporta in primo piano – stando alle ancora incerte analisi delle sue dinamiche – le latent failures del fattore umano come determinante di tragedie altrimenti incomprensibili. La nostra ansia di sicurezza, cui corrispondiamo con minute procedure vòlte alla massima compressione del rischio (fino al suo limite asintotico), si infrange sugli scogli del buio che portiamo dentro di noi, l’ineliminabile scogliera nascosta della fragilità umana in agguato su ogni rotta della vita.
Il carico di destini che si incrocia in ogni azione dell’uomo, e tanto più in quelle che attengono alle dinamiche collettive del nostro mondo, rimane affidato (al di là di ogni – pur necessario – processo di “securizzazione”, cioè del mettere al riparo, nei limiti del pensabile, dal rischio insito in ogni attività umana), alla padronanza di sé che si richiede ad ogni individuo, nell’illusione che ogni possibile controllo valga ad escludere anche l’emergere di un cedimento della mente, improvviso e travolgente.
Che cosa sia successo, se le cose stanno come ora sembra, nella testa e nell’animo del giovane pilota dell’A320, non lo sapremo mai, per quanto analitiche possano essere le ricostruzioni dei fatti: non c’è una scatola nera della nostra anima (o, se si preferisce, della nostra mente); le nostre azioni, ben al di sotto del loro contenuto professionale (quando serve), sono il prodotto di processi intellettuali, emozionali ed etici complessi ed in fondo insondabili, talora irragionevolmente istantanei, di fronte ai quali non resta che la sospensione del giudizio, per quanto efferate possano essere le conseguenze di quelle azioni. 
Forse le uniche parole che hanno senso sono quelle di un tragico Requiem che accomuni le vittime e il (finora presunto) loro forse incosciente assassino.
Roma, 27 marzo 2015

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