La dilagante incongruità del presente/2
(di Felice Celato)
“Imagini di ben seguendo false
che nulla promession rendono intera”
(Dante, Purgatorio, XXX, 131-132)
Se
avrete fatto caso – come suggerivamo nel post
precedente – alla dilagante incongruità del presente, forse vi sarete
accorti dell’insidioso succedaneo che ci propiniamo di fronte al vuoto che ci
pervade ogni volta che ci affacciamo, appunto, sul presente: la droga
dell’apparenza (spesso un po’ mondana), offerta a grandi mani da quegli
straordinari pusher dell’apparenza
che sono i nostri (peggiori) media e
quasi tutti i nostri politici.
Dicono
– non sono assolutamente esperto della materia – che uno dei più efficaci
motori della pulsione verso la droga sia l’insoddisfazione o il vuoto del
presente. E’ forse quello che accade anche a noi? Insoddisfatti della realtà,
ci rifugiamo inermi, come nei fumi dell’oppio, nella trappola dell’apparenza,
dove i significanti (i simboli) prendono
il posto dei significati: allora anche le persone più serie, e
mentalmente più strutturate, si abbandonano all’esaltazione di ciò che, almeno,
simboleggia la realtà che desidereremmo, quasi come se la concretezza di questa
possa essere scambiata con la suggestione di un semplice simbolo. E così ci accade
di non vedere nel fatto ciò che c’è di
reale o di vederci ciò che non c’è, come dice Manzoni di un personaggio che
gli era bonariamente antipatico; cose che, avverte il sommo scrittore, accadono a tutti, senza eccettuarne i
migliori, ma che a noi, dico io, oggi, accadono troppo spesso.
E
allora, ansiosi di buone notizie, plaudiamo speranzosi, per esempio, al
Presidente che prende l’aereo di linea, o al Papa che ci dice buon pranzo all’Angelus; perché vogliamo essere certi
che questi segni significhino ciò che in fondo desideriamo (chessò, semplicità,
bonomia, “normalità”) e che – nelle fattispecie esemplificate – sicuramente c’è
ma che, altrettanto certamente, nulla dice in sé circa il proprium di quegli altissimi (anzi, per me, nel caso del Papa,
sommi) officia (plurale di officium, servizio, funzione, carica,
etc.).
Bene,
si dirà non senza qualche ragione, ma ti vai a lagnare di questa tutto sommato
tollerabile (e talora anche divertente) predominanza dell’apparenza sulla
realtà, con tutto ciò che di ben più pericoloso ci accade dattorno?
E’
vero, forse me ne lamento troppo e magari finisco per irritare o, almeno,
annoiare; ma, in realtà, io credo che una democrazia adulta affondi le sue
radici in una costante e diffusa percezione del reale, dell’effettivo, del
concreto, della rispondenza fra officium
ed acta; senza di che, assuefatti
alla droga dell’apparenza, finiremmo per essere, come i prigionieri della
caverna di Platone, ingannati dalle ombre e, forse, ingenui specchi di una
banale semplificazione confezionata e distribuita per obnubilare il reale e
condizionarne la percezione.
Mi
viene in mente un curioso personaggio di un libro straordinario che lessi
qualche tempo fa: il dottor Pappenheim, co-protagonista di un romanzo di Aharon
Appelfeld (Badenheim 1939, Guanda,
2007), che, rifiutando di leggere nei fatti la realtà dell’incipiente caccia
all’ebreo, sale, ignaro per inconsapevole scelta, sul vagone della
deportazione, propinando ai malcapitati compagni di quell’ultimo viaggio una
speranzosa considerazione basata
sull’apparenza: “se i vagoni sono così
sporchi, significa che non si andrà lontano”.
Roma,
21 febbraio 2014
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