La dilagante incongruità del presente
(di
Felice Celato)
Ci
sono delle giornate in cui mi torna in mente, purtroppo non come memoria ma
come diagnosi sul presente, una frase che corse, tanti anni fa (quasi 20, di
sicuro), in una conversazione serale, a fine lavoro, con un vicinissimo
collega, in un momento di grave complessità e difficoltà della nostra vita di
“fatica” in comune: “la quantità e la
qualità dei problemi che abbiamo di fronte supera largamente la nostra capacità
di risolverli”, mi disse più o meno l’amico e collega, non incline, di
solito – come me, del resto – all’ottimismo.
Bene:
più o meno è quello che mi capita di pensare in questi giorni sfogliando il
giornale. Ho l’impressione che l’Europa e l’Italia in particolare – ma forse,
starei per dire, il nostro mondo – stiano
vivendo un periodo straordinariamente pericoloso e accidentato in condizioni di
straordinaria debolezza del loro pensiero e della loro volontà: da un lato,
venti di guerra fredda ad oriente, nemmeno poi completamente fredda, a
giudicare dai morti, purtroppo; una marea montante di oscure minacce a
meridione, annunciate da flussi di umanità terrorizzata che fatichiamo a
comprendere e gestire giustamente; una vita economica affannata da recessione e
disoccupazione, schiacciata da volumi di debito difficili anche da cifrare,
scossa persino nella certezza della sua unità di misura; le stesse regole
basilari di convivenza civile sembrano aggredite da fanatismi ciechi e sordi,
violenti e capaci di sottrarsi ad ogni
misura di prevenzione. Dall’altro, l’inconsistenza di ogni coesione,
l’incertezza di ogni di ogni volontà, l’ inaffidabilità di ogni punto di
appoggio, come quando si cammina su una pietraia scoscesa, l’insicurezza di
ogni valore condiviso, l’incoerenza caduca di ogni enunciato che consenta di
sviluppare un discorso filato, l’inadeguatezza generalizzata delle risposte
alla provocazione delle domande.
Si
dirà, non senza saggezza: la storia dell’Italia e dell’Europa hanno conosciuto ben altro, per sgomentarsi di venti, ondate, affanni, minacce, incertezze; e spesso in
condizioni non meno liquide e melmose delle presenti. Certamente vero, in
prospettiva storica.
Ma
il presente, per quanto figlio della storia, non è mai, esso stesso, la storia;
e, quand’anche questa ci insegni a relativizzare le oscillazioni dei tempi e ad
attendere le loro maturazioni, noi, vivendo nel presente, hic et nunc, non possiamo sottrarci alla dolorosa constatazione
della dilagante incongruità del presente; che la storia, magari, per strade che
non vediamo, sanerà, nel tempo, ma che oggi ci colpisce, oggi ci sgomenta, oggi
ci preoccupa.
Fateci
caso: provate a sottoporre, riflettendo accuratamente, alla prova di congruità –
o, se volete, di adeguatezza, di rispondenza, di appropriatezza – ogni corrente
enunciato (di giudizio o di volontà) rispetto ad ogni corrente problema e forse
– anzi, ne sono certo – proverete anche voi la sensazione di vuoto che mi pare
di provare ogni volta che mi affaccio sulle le opinioni e sulle azioni con le
quali tentiamo di inquadrare e gestire i problemi che ci affannano.
E’
vero, ritornando alla frase del mio (allora) sconsolato collega ed amico, poi
“la storia” che seguì ci aiutò a trovare la strada e anche qualche efficace
soluzione che ha resistito all’usura del tempo; ma quella sera – era una sera
di inizio primavera – tornammo a casa quasi disperati, come se un perdurante inverno
della realtà soffocasse sul nascere la speranza della primavera che cercavamo
di sentire nell’aria; un po’ come oggi, sul finire di questo carnevale.
Roma,
14 febbraio 2015, mielosa festa di San Valentino.
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