Papa Francesco
(di Felice Celato)
Eccoci qua, dunque ci avviciniamo a celebrare il primo anno
di questo straordinario pontificato, dopo aver celebrato quello del gesto profetico di
Benedetto XVI.
Per la verità, da buon guelfo, clericale e paolotto*, sono
portato a considerare ogni pontificato a suo modo straordinario (non mi
vergogno ad ammetterlo: io sono di quei “creduloni” che credono ancora allo
Spirito Santo e alla sua presenza nella Chiesa): tutti quelli che ricordo,
almeno dall’età della ragione (e, quindi, dopo Pio XII, nell'ordine: Giovanni
XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II e Benedetto XVI), per motivi diversi mi
sono apparsi – e forse sono veramente stati – straordinari, talora per
particolari carismi anche umani dei pontefici (Giovanni XXIII e Giovanni Paolo
II), talora per la libertà della loro visione del mondo e per la loro sapientia
cordis (Giovanni XXIII), talora per la sapientia mentis et cordis
(Benedetto XVI), talvolta per la parola profonda e sofferta (Paolo VI e
Benedetto XVI), talaltra, infine, semplicemente e superficialmente, per il
legame del loro tempo coi tempi migliori della mia “gioventù” (Paolo VI) o con quelli più pensosi della mia "tarda maturità"(Benedetto XVI); e
certamente anche il pontificato di Francesco ha una sua straordinarietà e un
suo fascino che abbiamo già scoperto con grande simpatia in questo suo primo
anno e che spero ci accompagni a lungo.
Per certi aspetti, il suo pontificato ha un sapore
"Roncalliano": il grande carisma dell’uomo, la sua semplicità non
banale, la sua naturale cordialità,
l’entusiasmo che sente e comunica per la fede (come del resto sapeva
fare anche Giovanni Paolo II) ne fanno un segno vivente di una Chiesa buona
compagna dell’uomo.
Per altri aspetti, invece, Francesco sembra dotato di una (tutta
sua) sensibilità empatica (rara nei papi!) che – forse perché in una certa
misura estranea al suo immediato predecessore – ne fa risaltare “la novità”
(anche quando, per fortuna, novità non è) agli occhi di un mondo che appunto
alla “novità” sembra attribuire una incondizionata virtù, specialmente in
materia ecclesiale (che normalmente sconosce.) E così Francesco diventa il
segno vivente di una Chiesa che si avvicina al mondo, con fiducia e coraggio, “come
nessuno aveva mai fatto prima di lui”, ha detto qualcuno poco pratico di Chiesa.
Ecco, lungo gli insidiosi crinali di questi duplici segni,
sta la grande sfida che, con coraggio, il papa venuto “dalla fine del mondo”
ha preso sulle spalle, quasi fingendo di non sentirne il peso e, da uomo di
grande fede, di non volerne considerare i rischi: certamente Francesco sa bene
che la Chiesa, nell’essere buona compagna dell’uomo, non cessa di esserne
maestra (mater, sì, ma anche magistra); come pure sa bene che il
cristiano (e dunque la Chiesa) deve essere nel mondo senza essere del mondo.
Proprio in questo sta la grandezza della sua sfida; nel fatto cioè che “il
mondo” non vuole maestri (perché si sente maestro a se stesso) né estranei che non si lascino omologare alla sua misura.
E dunque Francesco accetta di parlare al mondo, di stare nel mondo, come da
compagno e da “interno”, quando solo compagno non può essere né può esserne
omologo: e in questi ruoli prova a proporre quotidianamente il “praecipuum”
della sua missione petrina, magari non come il Gesù che sale sulla montagna ( o
si scosta dalla riva con la barca) per parlare alla folla ma come il Gesù che,
fattosi viandante fra viandanti, parla lungo il cammino, sulla strada per
Emmaus.
Una sfida difficile, perché il mondo assimila ed omologa,
direi fagocita, e magari tratta il papa come fosse un eroe da sorrisi e
canzoni; non ama, il mondo, discorsi dalla montagna, non tollera che gli
vengano additate strade più faticose di quelle che da solo crede di
individuare; e quando è stanco del percorso, verso sera, anche se ha
gradito la compagnia, non necessariamente dice "resta con noi Signore".
Francesco certamente lo sa, non sarebbe un discepolo di
Sant'Ignazio se non sapesse che il partecipare e l'accompagnare prendono senso
dal discernere: solo ha più fede di chi si preoccupa di qualche sua parola che
appaia concessiva, che usa come strumento di dialogo e come esca per i pesci
più lontani, a costo di lasciare talora sorpresi i più vicini.
Speriamo con tutto il cuore che la sua sfida abbia successo;
anzi, ne siamo sicuri, perché, anche questo papa, ci viene dallo Spirito Santo (
e poi perché, innegabilmente, ci sta simpatico, anche quando ci sorprende).
Roma, 7 marzo 2014
* per
chi non conosce il termine: in origine nome dato ai membri della Compagnia di
San Vincenzo de' Paoli; poi passato a
significare, soprattutto nell’Italia del centro-nord, genericamente
bacchettone, bigotto, baciapile.
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