Requiem
aeternam
(di
Felice Celato)
La
“festività” dei morti (ed altro, ahimè più vicino) mi hanno portato in questi
giorni a riflettere sulla cosiddetta vita eterna, cioè su quanto – nella nostra
meravigliosa concezione cristiana – ci aspetta dietro l’angolo della morte. Mi
sono convinto, confortato da alcuni passi della difficile enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, che il
termine che usiamo (la vita eterna, appunto) ha in sé qualcosa di fuorviante
perché parla di cose sovrumane con uso di parole umane troppo intrise di atavici
significati e di implicazioni sensoriali; e giustapposte come in un sovrumano
ossimoro: il concetto di vita ha, infatti, per me, ma credo per tutti, una
connotazione spaziale e temporale in sé ineliminabile: io vivo qui ora; e
rispetto a questo qui esiste altrove un altrove, come rispetto a questo ora
esistono un passato e un futuro, che sono abituato a misurare coi giorni, cioè
con l’alternarsi di luce e di buio. L’aggiunta dell’aggettivo eterna può
aiutare a guardare oltre le barriere temporali con cui sono abituato a
concepire la vita, ma non elimina del tutto le scorie di un concetto
spazio/temporale. Non a caso, credo, nel giorno dei morti, preghiamo “requiem aeternam dona eis, Domine, et lux
perpetua luceat eis” perché ciò che chiediamo non è una “vita” sia pure
eterna, fatta di giorni e di notti, di affanni e di gioie; ma, invece, un “riposo” eterno, starei per dire qualcosa che è o può apparire antitetico allo
stesso concetto di vita. E lo chiediamo in una dimensione luminosa (lux perpetua) che è anch’essa la
negazione della vita misurata dai giorni e dalle notti. Noi chiediamo cioè che
si interrompa per sempre la relazione che lega la luce al tempo e che tutto sia
luce, al di fuori del tempo; perché, forse, questo è il riposo (requiem), la pace che chiediamo per i nostri
morti e, quando ne sarà il tempo, per noi; e che spero per tutti i miei cari
che mi hanno preceduto nel passo verso la luce e che nella luce mi attendono
senza tempo.
Roma, 2 novembre 2013
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