domenica 14 settembre 2014

Angoscia

Debito pubblico e credito pubblico
(di Felice Celato)
C’è, sul futuro del nostro paese, un fardello più grave del suo Debito Pubblico? Forse sì, ed è il suo Credito Pubblico.
Mi spiego meglio perché i due termini sono qui usati in senso vagamente diverso. Che cosa intendo, qui, per Credito Pubblico? Intendo il credito di cui gode (o dovrebbe godere) uno stato (meglio ancora: una società) presso i suoi cittadini. E qui siamo messi male, molto male, forse peggio che col debito pubblico.
Proviamo a ragionarci sopra. Possiamo dire che i cittadini Italiani si fidino del loro Stato, della loro società? Io credo di no. E provo ad elencare quelle che a me sembrano le ragioni fondanti di tale sfiducia: non ostanti decenni di cultura statalista (che ha prodotto come frutto "accessorio" gran parte del nostro debito pubblico), gli Italiani hanno maturato – per certi aspetti paradossalmente – l’intima convinzione che del loro stato e della loro società non si debbano fidare. Tralascio di esemplificare partendo dall’”appalto della gestione sociale” nelle vaste aeree dominate dalla criminalità organizzata e vengo ad un’ipotetica Italia media e sana: gli Italiani diffidano dello Stato perché questo viene costantemente meno alla sua propria parola (livello ed oggetto della tassazione, livello delle pensioni, certezza e costanza del diritto, investimenti pubblici e relativi pagamenti? Fate voi, gli esempi non mancano!), per la sua invadenza spesso arrogante, per l’inconcludenza dei suoi processi decisionali ed esecutivi (leggi complicate, incomprensibili, spesso mancanti di norme applicative, etc.); ed anche per conclamate pubbliche ruberie. Ma gli Italiani ancor meno si fidano dell’Europa, in parte per la sterilità di questa, in parte per la propaganda anti-europea messa in campo spesso proprio da uomini politici provinciali e incapaci. Ed infine, forse, gli Italiani non si fidano nemmeno della loro societas, della propria classe dirigente, in parte impreparata, in parte disonesta, in parte oggetto di denigrazione sistematica.
Ora, nel contesto di queste valutazioni (che non considero affatto sempre e completamente fondate), come sarebbe possibile, anche al più abile degli uomini di Stato, “raddrizzare la barca” mentre, per di più, questa imbarca acqua? Per intenderci meglio: mentre proclama di voler mantenere i propri impegni, di contenere e razionalizzare la spesa, ma ogni giorno vede lievitare il proprio debito?
Il Debito Pubblico eccessivo (ciò che dell’Italia più preoccupa nel mondo ed in Europa) non è una malattia, ma semplicemente un sintomo, come lo sarebbe la febbre alta in un uomo; ed esso non si misura in termini assoluti ma in termini relativi, cioè rispetto alla ricchezza prodotta ogni anno (il famoso PIL, Prodotto Interno Lordo) e teoricamente utilizzabile per estinguere, sia pure nel tempo, le obbligazioni di rimborso assunte verso i creditori.
Se non siamo capaci di contenere e/o ridurre il debito pubblico (cosa tutt’altro che facile, intendiamoci) dovremmo almeno tentare di far crescere la dimensione cui si raffronta, cioè il PIL (è “la politica del denominatore”, di cui parlava Monti qualche anno fa). Ma per aumentare il PIL occorrono tante cose e, prima di tutte, il credito pubblico nell’accezione di cui sopra: senza fiducia nello stato, nella nostra societas, in noi stessi e nel nostro futuro, anche questo risulta un obbiettivo al di là della nostra portata (del nostro reach, come dicono gli americani). Purtroppo, in carenza di tale fondamentale virtù civica (la fiducia, la capacità di avere fiducia in noi stessi; un elemento sociologico ed antropologico, questo!) e quindi in presenza di un PIL stagnante, lo Stato è costretto ad agire sull’altro fronte (quello della riduzione del numeratore, cioè del Debito Pubblico) e quindi a porre in essere misure che non potranno che accentuare la diffidenza che i cittadini hanno nei suoi confronti (cioè fare buona parte di quelle cose che hanno fondato il mistrust, la sfiducia, dei cittadini verso lo Stato stesso!).
In questo loop, sta la ragione della mia angosciata preoccupazione e, ad un tempo, la mia disperata attesa che qualcosa infranga il circolo vizioso di cui siamo prigionieri. E – ma qui, come in tante altre cose e come è forse proprio dell’età, mi ripeto – se provassimo a dire agli Italiani la verità ed a scambiarci il reciproco perdono? Programma vasto, direbbe De Gaulle; e sicuramente politicamente molto rischioso. Ma non è più rischioso continuare a parlarci con reciproci inganni, slogan, trasferimenti vocali di responsabilità? Come diceva Abramo Lincoln, “si può ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non si può ingannare tutti per sempre”.

Roma, 14 settembre 2014

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