Debito pubblico e
credito pubblico
(di Felice Celato)
C’è,
sul futuro del nostro paese, un fardello più grave del suo Debito Pubblico?
Forse sì, ed è il suo Credito Pubblico.
Mi
spiego meglio perché i due termini sono qui usati in senso vagamente diverso.
Che cosa intendo, qui, per Credito Pubblico? Intendo il credito di cui gode (o
dovrebbe godere) uno stato (meglio ancora: una società) presso i suoi
cittadini. E qui siamo messi male, molto male, forse peggio che col debito
pubblico.
Proviamo
a ragionarci sopra. Possiamo dire che i cittadini Italiani si fidino del loro
Stato, della loro società? Io credo di no. E provo ad elencare quelle che a me
sembrano le ragioni fondanti di tale sfiducia: non ostanti decenni di cultura
statalista (che ha prodotto come frutto "accessorio" gran parte del nostro debito
pubblico), gli Italiani hanno maturato – per certi aspetti paradossalmente –
l’intima convinzione che del loro stato e della loro società non si debbano
fidare. Tralascio di esemplificare partendo dall’”appalto della gestione
sociale” nelle vaste aeree dominate dalla criminalità organizzata e vengo ad
un’ipotetica Italia media e sana: gli Italiani diffidano dello Stato perché
questo viene costantemente meno alla sua propria parola (livello ed oggetto
della tassazione, livello delle pensioni, certezza e costanza del diritto,
investimenti pubblici e relativi pagamenti? Fate voi, gli esempi non mancano!),
per la sua invadenza spesso arrogante, per l’inconcludenza dei suoi processi
decisionali ed esecutivi (leggi complicate, incomprensibili, spesso mancanti di
norme applicative, etc.); ed anche per conclamate pubbliche ruberie. Ma gli
Italiani ancor meno si fidano dell’Europa, in parte per la sterilità di questa,
in parte per la propaganda anti-europea messa in campo spesso proprio da uomini
politici provinciali e incapaci. Ed infine, forse, gli Italiani non si fidano
nemmeno della loro societas, della
propria classe dirigente, in parte impreparata, in parte disonesta, in parte
oggetto di denigrazione sistematica.
Ora,
nel contesto di queste valutazioni (che non considero affatto sempre e
completamente fondate), come sarebbe possibile, anche al più abile degli uomini
di Stato, “raddrizzare la barca” mentre, per di più, questa imbarca acqua? Per
intenderci meglio: mentre proclama di voler mantenere i propri impegni, di
contenere e razionalizzare la spesa, ma ogni giorno vede lievitare il proprio
debito?
Il
Debito Pubblico eccessivo (ciò che dell’Italia più preoccupa nel mondo ed in
Europa) non è una malattia, ma semplicemente un sintomo, come lo sarebbe la
febbre alta in un uomo; ed esso non si misura in termini assoluti ma in termini
relativi, cioè rispetto alla ricchezza prodotta ogni anno (il famoso PIL,
Prodotto Interno Lordo) e teoricamente utilizzabile per estinguere, sia pure
nel tempo, le obbligazioni di rimborso assunte verso i creditori.
Se
non siamo capaci di contenere e/o ridurre il debito pubblico (cosa tutt’altro
che facile, intendiamoci) dovremmo almeno tentare di far crescere la dimensione
cui si raffronta, cioè il PIL (è “la politica del denominatore”, di cui parlava
Monti qualche anno fa). Ma per aumentare il PIL occorrono tante cose e, prima
di tutte, il credito pubblico nell’accezione di cui sopra: senza fiducia nello
stato, nella nostra societas, in noi
stessi e nel nostro futuro, anche questo risulta un obbiettivo al di là della
nostra portata (del nostro reach,
come dicono gli americani). Purtroppo, in carenza di tale fondamentale virtù
civica (la fiducia, la capacità di avere fiducia in noi stessi; un elemento sociologico
ed antropologico, questo!) e quindi in presenza di un PIL stagnante, lo Stato è
costretto ad agire sull’altro fronte (quello della riduzione del numeratore,
cioè del Debito Pubblico) e quindi a porre in essere misure che non potranno
che accentuare la diffidenza che i cittadini hanno nei suoi confronti (cioè
fare buona parte di quelle cose che hanno fondato il mistrust, la sfiducia, dei cittadini verso lo Stato stesso!).
In
questo loop, sta la ragione della mia
angosciata preoccupazione e, ad un tempo, la mia disperata attesa che qualcosa
infranga il circolo vizioso di cui siamo prigionieri. E – ma qui, come in tante
altre cose e come è forse proprio dell’età, mi ripeto – se provassimo a dire
agli Italiani la verità ed a scambiarci il reciproco perdono? Programma vasto,
direbbe De Gaulle; e sicuramente politicamente molto rischioso. Ma non è più
rischioso continuare a parlarci con reciproci inganni, slogan, trasferimenti
vocali di responsabilità? Come diceva Abramo Lincoln, “si può ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non
si può ingannare tutti per sempre”.
Roma, 14 settembre 2014
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