Il primato della politica
(di
Felice Celato)
Fateci
caso: rinasce, ricircola, riprende vigore soprattutto nelle quotidiane dichiarazioni
di politici (anche di modesta levatura) e nelle polemiche seguite all’esternato
disagio di chi sovraintende (o sovraintendeva?) alla cosiddetta spending review, uno slogan che andava di moda tanti anni fa
(per intenderci: soprattutto negli anni in cui si dilatava maggiormente il
debito pubblico): il primato della politica. Solo sul Corriere della sera di oggi, basta leggere le dichiarazioni di Lupi
o di Nardella, giovane e (per me) oscuro sindaco di Firenze. Ne discutono
anche, con ben altra profondità e conclusioni opposte, Luca Ricolfi su La stampa di oggi e anche, sia pure di
sfuggita, Natalino Irti (una testa pensante) che presenta, su Tuttolibri, il suo saggio “Del salire in politica”.
Si
badi bene: nessuno dubita dell’alta funzione della politica nella vita civile.
E’ di tutta evidenza, per esempio, che ove si decida sulla necessità di un
“taglio” debba essere la politica a decidere se si tagliano le pensioni o gli
incentivi alle imprese; o se, invece, si debba rinunciare ad un “taglio” e
compensare il mancato “taglio” con una nuova imposta; o se si debba spendere un
po’ delle scarse risorse di cui disponiamo in opere pubbliche piuttosto che in riduzioni di imposta. Eppure le dichiarazioni che si leggono (esempio: il
sopracitato Nardella: “dovendo tagliare la spesa e migliorare i servizi non mi
sono rivolto ai tecnici. I tecnici devono eseguire”) hanno un sapore di antica
arroganza, che lascia pensare che alla politica si immagini appartenere il
potere di fare “de albo nigrum” e
alla tecnica il dovere di “eseguire” l’alchimia.
Invece
io penso che le condizioni globalizzate della politica odierna riducano enormemente
gli spazi della politica e facciano dell’”arte del governo” un esercizio di
tecnica sapiente piuttosto che di politica sorda alle esigenze cosiddette
“tecniche”. Da tempo non abbiamo più il potere di governo della moneta;
dipendiamo dai flussi finanziari dei mercati tanto più quanto più siamo
indebitati (e non ho bisogno di ricordare quanto lo siamo noi Italiani); siamo
monitorati (per ora da lontano) da organismi internazionali e da “opinionisti tecnici” (che cosa sono,
sennò, le agenzie di rating?);
dipendiamo come non mai dai flussi internazionali di domanda e di offerta di
beni e servizi; anche la nostra politica dell’immigrazione dipende dalle
condizioni politiche dei paesi del Mediterraneo; vediamo le imprese “bandiera”
(Fiat, per esempio, Alitalia, Rottafarm, etc.) trasferire le loro “teste”
all’estero ( e non sempre in Europa), etc. . Che cosa si vuole che pesi, in
questo scenario così articolato e complesso, “il primato della politica”
italiano? Quale angusto spazio può riservare ai sedicenti detentori di questo
primato la pressione di un contesto così sovraordinato? Come possono, i
sedicenti detentori di questo primato, ignorare che il benessere di una nazione
(dal quale, è inutile negarlo, dipendono in gran parte gli umori politici di un
paese moderno) non può convivere con scelte che ignorino i vincoli “tecnici”
che lo scenario globale impone? E che, tutt’al più, il “primato della politica”
può avere un transitorio effetto elettorale, finché si riesce ad eludere la realtà
e se si riesce ad evitare di fare colossali stupidaggini?
Ricordo
a me per primo i moniti che alcuni “vituperati” tecnici levavano inascoltati
quando il “primato della politica” volle la famosa riforma del titolo V della
Costituzione, dalla quale dipende buona parte del nostro dissesto finanziario.
Bene,
possiamo anche convenire sul fatto che non faccia piacere ai detentori di
questo “primato della politica” sentirsi dire “attento a quello che fai!” Ma ci
viene più difficile (o meglio: mi viene più difficile) immaginare che basti
rivendicare il primato di salto con l’asta per riuscire a volare, appunto, al
di sopra dell’asta.
Roma,
3 agosto 2014
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