lunedì 2 dicembre 2013

Speranze (piccole)

L’avvento dell’Avvento
(di Felice Celato)
E’ da più di un mese che non torniamo ad occuparci su queste pagine delle condizioni di questo nostro paese. Ci hanno “distratto” molte cose, in questo mese dei morti che si è appena concluso, lasciandoci anche senza la voglia di scrivere.
Ma per fortuna è arrivato l’Avvento, tempo di nuovo fervore, per sua natura; e tempo di riflessione: il padre De Bertolis, domenica scorsa, nell’omelia delle 10 al Gesù, sottolineava le parole del Vangelo (Mt 24, 37-44): “non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e li travolse tutti”.  Quando viene il diluvio per ciascuno di noi, prima ancora che per tutti, non lo sappiamo e non è facile essere sempre pronti, come pure dovremmo: l’Avvento ci riporta a questa preparazione, accompagnando l’attesa dell’ homo religiosus (come direbbe un cardinale scomparso quest’anno, Julien Ries) con la vera Speranza che il Natale lascia già intravedere.
Da queste vette della Speranza (“la grande speranza” come dice Benedetto XVI, quella che si esprime dicendo solo “io spero”) è difficile tornare alle speranze di tutti i giorni (“le piccole speranze”), quelle che definiamo con la ricorrente espressione “io spero che….”; e, come segno di massima disposizione a queste speranze intramondane, vorrei provare a formulare un decalogo delle mie speranze per il Paese dove viviamo, una specie di decalogo civile per questo nostro avvento civile.
Io spero: (1) che nei prossimi mesi l’Italia si scuota dal torpore inquieto in cui l’hanno gettata menzogne e semplificazioni di questi nostri tempi mediatici; (2) che la verità torni ad essere una virtù politica; (3) che ad essa si accompagni una disposizione al perdono dei tanti errori commessi da tutti in questi anni folli; (4) che su queste basi si riscopra la virtù del sacrificio, a fondamento di una autentica solidarietà intergenerazionale; (5) che non si abbia paura del nuovo quando il vecchio si è dimostrato sbagliato, e che si abbia riguardo del vecchio quando il vecchio si è dimostrato buono; (6) che si cessi di gridare all’altrui indegnità; (7) anzi, che si cessi proprio di gridare; (8) che si torni a credere che l’Europa è la nostra patria e il nostro destino, non ostante tutto; (9) che si torni a credere nel valore della concordia nei fini, anche nella diversità dei mezzi; (10) che ci si voglia semplicemente più bene (o meno male, che già sarebbe tanto).
Non sono così ingenuo da sottovalutare la difficoltà enorme di tenere insieme tutte queste speranze certamente “impolitiche” che in fondo, però, si àncorano ad una fiducia, non del tutto sepolta, nella “saggezza” del nostro scheletro contadino (come diceva De Rita un paio d’anni fa). Solo mi domando se esistono alternative, percorribili coi mezzi ordinari, che oggi la nostra appannata antropologia possa proporre. Pare, è sempre il Censis ad accendere la candela (I valori degli Italiani, 2013, Marsilio Editore), che il pendolo del degrado possa essere pronto a liberare l’energia del suo moto di ritorno; e dunque vale la pena di sperare. Anzi è doveroso sperare, pur in presenza di segni confusi e spesso contraddittori: ci pensavo qualche giorno fa ascoltando l’illustrazione di sé (non direi dei propri programmi) che facevano i candidati alle primarie del PD e mi tornava in mente una terribile citazione che Benedetto XVI faceva (in Spe salvi, cap. 2) di un’iscrizione pagana dei tempi di San Paolo: In nihil ab nihilo quam cito recidimus (Quanto presto ricadiamo nel nulla dal nulla!).
Bene: nonostante tutto (l’IMU e le diverse imposte disegnate con mano infantile, il debito che non cala, la spesa che non si taglia, le promesse di privatizzazioni e le ri-pubblicizzazioni di imprese privatizzate, le mancate riforme promesse come urgenti, l’insignificanza del parlare dell’altrui parlare), nonostante tutto, con l’Avvento, dunque, speriamo anche per l’Italia oltreché per i nostri individuali destini, perché del diluvio non ci è dato conoscere i tempi e forse il semplice sperare ci rende già migliori.
Roma 2 dicembre 2013


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