L’avvento dell’Avvento
(di
Felice Celato)
E’
da più di un mese che non torniamo ad occuparci su queste pagine delle
condizioni di questo nostro paese. Ci hanno “distratto” molte cose, in questo
mese dei morti che si è appena concluso, lasciandoci anche senza la voglia di
scrivere.
Ma
per fortuna è arrivato l’Avvento, tempo di nuovo fervore, per sua natura; e
tempo di riflessione: il padre De Bertolis, domenica scorsa, nell’omelia delle
10 al Gesù, sottolineava le parole del Vangelo (Mt 24, 37-44): “non si accorsero di nulla finché venne il
diluvio e li travolse tutti”. Quando
viene il diluvio per ciascuno di noi, prima ancora che per tutti, non lo
sappiamo e non è facile essere sempre pronti, come pure dovremmo: l’Avvento ci
riporta a questa preparazione, accompagnando l’attesa dell’ homo religiosus (come direbbe un
cardinale scomparso quest’anno, Julien Ries) con la vera Speranza che il Natale
lascia già intravedere.
Da
queste vette della Speranza (“la grande
speranza” come dice Benedetto XVI, quella che si esprime dicendo solo “io
spero”) è difficile tornare alle speranze di tutti i giorni (“le piccole speranze”), quelle che
definiamo con la ricorrente espressione “io spero che….”; e, come segno di
massima disposizione a queste speranze intramondane, vorrei provare a formulare
un decalogo delle mie speranze per il Paese dove viviamo, una specie di
decalogo civile per questo nostro avvento civile.
Io
spero: (1) che nei prossimi mesi l’Italia si scuota dal torpore inquieto in cui
l’hanno gettata menzogne e semplificazioni di questi nostri tempi mediatici;
(2) che la verità torni ad essere una virtù politica; (3) che ad essa si
accompagni una disposizione al perdono dei tanti errori commessi da tutti
in questi anni folli; (4) che su queste basi si riscopra la virtù del
sacrificio, a fondamento di una autentica solidarietà intergenerazionale; (5)
che non si abbia paura del nuovo quando il vecchio si è dimostrato sbagliato, e
che si abbia riguardo del vecchio quando il vecchio si è dimostrato buono; (6)
che si cessi di gridare all’altrui indegnità; (7) anzi, che si cessi proprio di
gridare; (8) che si torni a credere che l’Europa è la nostra patria e il nostro
destino, non ostante tutto; (9) che si torni a credere nel valore della
concordia nei fini, anche nella diversità dei mezzi; (10) che ci si voglia
semplicemente più bene (o meno male, che già sarebbe tanto).
Non
sono così ingenuo da sottovalutare la difficoltà enorme di tenere insieme
tutte queste speranze certamente “impolitiche” che in fondo, però, si àncorano ad
una fiducia, non del tutto sepolta, nella “saggezza” del nostro scheletro contadino
(come diceva De Rita un paio d’anni fa). Solo mi domando se esistono
alternative, percorribili coi mezzi ordinari, che oggi la nostra appannata
antropologia possa proporre. Pare, è sempre il Censis ad accendere la candela (I valori degli Italiani, 2013, Marsilio
Editore), che il pendolo del degrado possa essere pronto a liberare l’energia
del suo moto di ritorno; e dunque vale la pena di sperare. Anzi è doveroso
sperare, pur in presenza di segni confusi e spesso contraddittori: ci pensavo
qualche giorno fa ascoltando l’illustrazione di sé (non direi dei propri
programmi) che facevano i candidati alle primarie del PD e mi tornava in mente
una terribile citazione che Benedetto XVI faceva (in Spe salvi, cap. 2) di un’iscrizione pagana dei tempi di San Paolo: In nihil ab nihilo quam cito recidimus
(Quanto presto ricadiamo nel nulla dal nulla!).
Bene:
nonostante tutto (l’IMU e le diverse imposte disegnate con mano infantile, il
debito che non cala, la spesa che non si taglia, le promesse di privatizzazioni
e le ri-pubblicizzazioni di imprese privatizzate, le mancate riforme promesse
come urgenti, l’insignificanza del parlare dell’altrui parlare), nonostante
tutto, con l’Avvento, dunque, speriamo anche per l’Italia oltreché per i nostri
individuali destini, perché del diluvio non ci è dato conoscere i tempi e forse
il semplice sperare ci rende già migliori.
Roma
2 dicembre 2013
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