giovedì 7 gennaio 2021

A proposito di solchi

A furore rusticorum

(di Felice Celato)

Devo ad un dotto spunto offertomi da una mia colta cognata la scoperta di questa curiosa “preghiera” del XV secolo (citata da Maurizio Montanari, interessantissimo docente di storia e cultura dell’alimentazione, già segnalato qui – post del 25 gennaio 2020 – per un bellissimo libro sul mito delle origini, ragionato attraverso la storia degli spaghetti al pomodoro): ab insidiis diaboli et signoria de villano et a furore rusticorum libera nos Domine (in esergo a Immagine del contadino e codici di comportamento alimentare, di Massimo Montanari).

Dico subito che, date le mie radici rurali, in qualche modo la “preghiera” del XV secolo poteva anche risultare urticante: perché, poveri contadini, tanto “convenzionale” disprezzo? E poi, proprio in questi giorni, in cui, non solo a me (cfr. ultimo post), sono venute in mente diverse positive metafore (del solco, dell’aratro, del vomere), tutte di ispirazione contadina e applicate niente di meno che agli auspici per il futuro! Perché a furore rusticorum libera nos Domine?

Ma le metafore (figure retoriche che risultano da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo aver mentalmente associato due realtà differenti sulla base di un particolare sentito come identico, si sostituisce la denominazione dell’una con quella dell’altra, da Treccani) hanno un loro fascino e spesso si propongono, anche al di là del “particolare sentito come identico”, per nuove “immagini” e per nuovi significati.

Dunque, ragioniamoci sopra, seguendo il filo di una “nostra” nuova metafora: l’immagine (“convenzionale”) che, del contadino (agricola, colonus, ma anche rusticus, in latino), si è venuta formando nei secoli e nelle “raffinate” culture urbane viene fuori  dalla sua (del contadino) rustica devozione alla pura materialità del suo pezzetto di terreno e dei suoi fisici confini, dalla sua dipendenza dalla bovina energia motrice dell’aratro, dalla limitatezza dei suoi orizzonti esistenziali (prima ancora, ovviamente, che culturali), dalla sua cieca dipendenza da ritmi stagionali e biologici della propria valletta, dal suo avanzare a testa bassa dietro all’aratro, dalle sue mani impastate di terreno o di letame. Da queste “convenzionali” immagini del contadino è nata anche l’etichetta di rustico (da rus- ruris, campagna) contrapposta a quella di urbano (da urbs-urbis, città), inteso come “appartenente alla città, …elegante, cortese”; e quindi, per contrapposizione, il povero contadino è diventato grossolano, rozzo, scortese, per definizione. E perciò – come vuole la “preghiera” da cui siamo partiti – da temere specie nei suoi furori (per attrazione: animaleschi) e ancor più nella sua paventata signoria.

Noi, che delle “convenzioni” vorremmo liberarci, non abbiamo più questa “convenzionale” immagine del contadino, ormai largamente superata, tanto più in tempi di agricoltura industrializzata; ma poi – ecco la… tentazione metaforica! – oggi, ci sono ancora rustici da temere? E se sì, chi sono – hic et nunc – i “rustici” dai cui furori e dalla cui signoria vorremmo comunque essere preservati?

Ecco: io penso che, anche il nostro esistere “urbanizzato”(secondo dati UN, il 55% della popolazione mondiale vive in aggregati urbani, qualcosa come oltre 4,2 miliardi di persone) non ci ha preservato dai rustici della metafora, che affollano, oggi in vesti più o meno eleganti, non più le campagne ma le strade delle città, le televisioni, i talk-show, i social media, le piazze (o, magari, talora, le aule parlamentari); anche loro caratterizzati dalla rustica devozione alla pura fisicità del loro pezzetto di terreno (magari diventato il mito dei “sacri” confini), dalla loro dipendenza dalla animalesca energia motrice di eccitate parlantine, dalla limitatezza dei loro orizzonti culturali (anche indipendenti da quelli esistenziali), dalla loro dipendenza dai ritmi biologici del loro milieu, dal loro avanzare a testa bassa dietro all’aratro trainato dal bove del momento, appositamente pungolato ad andare avanti anche lui a testa bassa, dalle loro mani impastate, non più di terreno o di letame, ma dalla stessa massa da impasticciare, da amalgamare e forse anche da modellare.

Se reggono questi “sviluppi metaforici”, va, forse, ancora bene la “preghiera” del XV secolo (dai loro furori e dalla loro signoria ci guardi Iddio!)? Forse….

Roma 7 gennaio 2021

 

 

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