Esami di incoscienza
(di
Felice Celato)
Da
tempo mi sono convinto – e la continua analisi sociologica che meritoriamente
aggiorna ed illustra il Censis me ne dà il conforto e, talora, anche il
supporto lessicale – che la ragione dei nostri mali sia sociologica e
culturale. Non è il caso di dilungarsi qui sulle ragioni di questa convinzione,
del resto più volte evocata in questi post
ma anche nelle tante discussioni fra amici, anche in date molto antecedenti: la nostra Italia di oggi mi
pare, in estrema sintesi, una società divisa e dispersa, ubriaca di opinionismi
dissennati, senza un pensiero collettivo, proclive ad una giocosità cinica ad
ai giudizi sommari, incapace di mobilitare concreti impegni collettivi, gravemente
impreparata a gestire passaggi estremamente complessi come quello che stiamo
vivendo.
E il
linguaggio è l’epifania tragica di questa nostra (decotta?) realtà
socio-culturale (o addirittura antropologica?). Non riusciamo più a misurare le
parole attribuendo loro il significato che dovrebbe essere proprio; abbiamo
tanto deriso le alchimie linguistiche (ricordate, per esempio, le famose convergenze parallele?) di un passato
politico che ripetitivamente apostrofiamo con alterigia derisoria (“il linguaggio del teatrino della politica”),
che non solo non riusciamo più ad articolare giudizi complessi ma addirittura
sembriamo voler abdicare ad ogni senso proprio delle cose, a “vantaggio” di una
sincopata triturazione di “gridismi” di ogni genere, misurati solo in funzione
della loro voluta, rumorosa grossolanità. E, in un loop perverso, le parole (ricordate
la citazione?) generano opinioni e le
opinioni danno forma ai sentimenti. I sentimenti diventano fatti.
Questo
dolente contesto culturale fa da sfondo (e, ahimè, da alimento) ad un passaggio
politico, economico e finanziario estremamente preoccupante, proprio in vista
di quell’ormai imminente “redde rationem”
politico che saranno le prossime elezioni della primavera 2013. I partiti
politici – messi in “purgatorio” dalle loro stesse inadeguatezze – con qualche
rara e frazionata eccezione, sembrano avvoltolarsi fra barlumi di coscienza e
lampi di incoscienza, avviandosi – quod
Deus avertat! – a perdere l’occasione decisiva che le circostanze hanno loro
dolorosamente offerto, quella di tornare (o imparare?) a parlare ai cittadini
elettori con l’unico linguaggio che può salvare la nostra società dalla catastrofe
che pende su di essa, il linguaggio della verità: verità sui mali del Paese, sulle
sue condizioni economiche, sulle lunghe responsabilità di tutti e sulla
necessità di reciproco perdono, sui riposizionamenti necessari, sui limiti e i
benefici dell’attuale situazione della nostra patria europea, sulle nostre
realistiche possibilità di farcela e di farcela da soli, come, in fondo, la
nostra storia, dal dopoguerra in poi, sembra meritare. Tutti, con qualche rara
e frazionata eccezione, hanno paura di dirla, ‘sta verità, pensando che sia “elettoralmente nociva”; tutti
preferiscono dispensare altre illusioni, che si possa farcela senza un duro
sforzo, senza scorciatoie populiste, senza un profondo ridisegno della nostra
società, senza il prezzo (doloroso) da pagare ad un benessere costruito sul
debito pubblico.
Ci
sono sette o otto mesi (e agosto e settembre saranno durissimi!) per garantirci
che le elezioni non serviranno per abbandonare la strada intrapresa, non senza
qualche errore, da questo Governo, che di verità ne ha dovute dire, alcune.
L’Italia del post-elezioni sarà, ne sono convinto, un Paese necessariamente
diverso da quello cui ci aveva abituato la lunga pausa di tanti anni dopo lo
sforzo della (vera) crescita; ai partiti, in questi sette otto mesi, sta la
scelta fra i messaggi da dare agli Italiani e, in definitiva, la possibilità
che questa Italia diversa che ci attende sia più sana. Purtroppo, non sono
molto ottimista; ma posso sbagliare, ovviamente (….del resto – l’autoironia è
d’obbligo, soprattutto quando si fanno oscure profezie – come si diceva di un famoso economista, ho
previsto almeno nove delle ultime tre catastrofi!).
Roma,
20 luglio 2013
PS: (1) qualcuno che sa di una mia breve vacanza americana
potrebbe dire: ma, a questo, le vacanze fanno male? No, vi assicuro, i cinque
giorni in USA sono stati piacevoli ed interessanti (è stato bello anche
constatare la tanta simpatia di cui gode il nostro Paese, per qualche immagine
di sé che, pure, è stato in grado di dare);…..sono i ritorni che fanno male! (2) A chi fosse sfuggito segnalo l’articolo di Galli della
Loggia, sul Corriere della sera del 13 luglio.
Nessun commento:
Posta un commento