martedì 19 luglio 2011

Attorno al premio Strega

La globalizzazione
(di Felice Celato)
Il premio Strega di quest’anno è andato ad un libro di Edoardo Nesi “Storia della mia gente” (Bompiani) che per la verità non è (solo) un romanzo ma, forse più propriamente, un racconto autobiografico dal taglio anche marcatamente critico, una specie di indagine sociologica in forma letteraria sui temi ormai non nuovi della cosiddetta globalizzazione e dei fenomeni di  crowding-out economico conseguenti all’immigrazione (cinese, nella fattispecie). L’ambientazione è a Prato; il tempo quello proprio recente; il contesto umano quello della media imprenditoria a base familiare messa in crisi dall’arrivo di migliaia di cinesi che rapidamente “spiazzano” le basi dell’economia locale occupando non solo – come è comunemente percepito altrove – i posti più bassi della scala socio-economica del lavoro ma addirittura quella più evoluta dell’imprenditoria minuta dei settori industriali tecnologicamente tradizionali.



Non saprei dire dei meriti letterari, forse non eccelsi, del libro, che si legge però bene e bene amalgama le varie “anime” del racconto (quella propriamente narrativa, quella riflessiva, quella della anche aspra denuncia del problema, etc), dando vita ad una narrazione-trattazione non priva di considerazioni interessanti e anche profondamente sentite (talora direi: risentite). Certe citazioni possono apparire un po’ pop, il linguaggio talora inutilmente poco sorvegliato, ma nel complesso il libro è piacevole, ripeto, interessante e senz’altro da raccomandare per una lettura non banale.


Detto questo (poco), vorrei soffermarmi brevemente sul tema di fondo del libro: la globalizzazione, come lascia intendere non senza veemenza Nesi, è l’origine dei mali della nostra economia (almeno di quella Pratese).


La tesi è diffusa, soprattutto in certe aree geografiche e culturali del Paese, ma non per questo meno curiosa, quasi come se la globalizzazione sia il frutto di una scelta centralizzata e cosciente: ad un certo punto ci siamo svegliati e ci siamo detti: perché domani non facciamo la globalizzazione? Beh, certo, se così fosse sarebbe come se un monopolista pazzo, un bel giorno, avesse detto: “domani facciamo la concorrenza! Al diavolo i privilegi di cui gode chi ha un intero mercato in mano e viva la spartizione di ciò che era mio!”


Ma così non è, è troppo facile capirlo (e certamente lo ha capito anche Nesi): la cosiddetta globalizzazione (come del resto la dinamica dell’emigrazione) non è altro che il nome che abbiamo inventato per un fenomeno che affonda le sue radici nei profondi e spaventosi squilibri economici e demografici del nostro mondo, dove grandi masse di poveri, crescenti a ritmi nettamente superiori a quelli dei mondi diciamo lato sensu occidentali, hanno impetuosamente cominciato a bussare alle porte del mondo ricco rivendicando, per fortuna in prevalenza pacificamente, una parte del benessere di cui questo godeva (e tuttora gode). Bussavano (e bussano tuttora, e busseranno ancora di più nel prossimo futuro) per chiedere di non essere più solo sfruttati produttori di materie prime e poveri consumatori di quel poco di benessere che il mondo occidentale per lunghi anni ha fatto percolare al di fuori del proprio recinto; ma semplicemente co-produttori del futuro, anche a costo di vivere una o due generazioni di quasi schiavismo (quale è spesso quello cui si sottomettono molti dei nostri immigrati). E noi abbiamo forzatamente risposto inventandoci un termine, appunto la globalizzazione, nel quale abbiamo cercato di incorporare il concetto di bilaterale abbattimento delle frontiere dei nostri mercati, ben capendo – se non lo avessimo capito saremmo stati veramente miopi – che questa apertura portava come inevitabile risvolto “una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario, come in precedenza non era mai avvenuto” (Caritas in veritate, 42) e che dal punto di vista del controllo della ricchezza non avrebbe potuto che rimetterci chi era più ricco.


Si può argomentare che una migliore gestione del fenomeno sarebbe stata (o tuttora sarebbe) possibile, evitando o limitando, per esempio, quello che si chiama il dumping sociale, attraverso regole precise; ma certamente sarebbe stato illusorio (e tuttora lo sarebbe) immaginare di poterlo (pacificamente) contrastare: piazzando qualche scoglio puoi riparare le tue spiagge dalle onde ma non puoi evitare che la marea le raggiunga.


Si potrebbe ancora aggiungere che la globalizzazione, se ha raggiunto impressionati risultati in alcuni settori, per esempio, la finanza (oggi i paesi occidentali fanno disciplinatamente la fila per far comprare il loro debito dai fondi sovrani cinesi), lascia ancora per un po’ al mondo occidentale il soft-power di una certa primazia culturale e tecnologica; ma anche qui, non illudiamoci: l’India, per esempio, sta progredendo a ritmi travolgenti ed offre già ai mercati occidentali ingegneri di grande valore a costi infinitamente inferiori a quelli appunto dei nostri mercati interni.


E’ il destino, io credo, del nostro mondo occidentale che è giunto oramai al tramonto forse definitivo di molti di suoi privilegi, tramonto al quale non giova pensare di opporsi ma che occorre gestire in questa sua fase transitoria, magari “prendendo coscienza di quell’anima antropologica ed etica che, dal profondo, sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale”(ancora Caritas in Veritate, 42).


Dunque, alla domanda di Nesi (Storia della mia gente, ultimo capitolo) “Non c’è nessuno….che debba chiederci scusa per averci condannato a essere la prima generazione da secoli che andrà a star peggio di quella dei nostri genitori?”, la risposta è facile: no, non c’è nessuno, per lo meno a livello globale ( posso avere idee diverse sulla situazione specificamente italiana dove alla marea della globalizzazione abbiamo aggiunto l’inerzia e l’irresponsabilità politica della nostra generazione; ma questo è un altro discorso e forse lo abbiamo iniziato, proprio in questo blog).


19 luglio 2011





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