martedì 31 dicembre 2024

HAPPY NEW YEAR

Il finto proverbio cinese per il 2025

(di Felice Celato)

Sarà difficile l’anno che viene, inutile nasconderselo; difficile ed enormemente rischioso, come ci scrivono, con solidi argomenti, i nostri commentatori più seguiti; inutile – anzi: addirittura altamente dannoso per l’umore – fare, qui, un analitico censimento delle inquietanti correlazioni che collegano fra loro gli scenari dei vari mondi di cui facciamo parte (la Terra, infestata da prepotenze e da violenze fisiche e verbali; il genere umano, tanto spesso dimentico di se stesso; l’Europa sull’orlo di una  folle crisi identitaria; il nostro povero Paese, galleggiante nella banalità dei suoi slogan ad uso di menti pigre).

Nello sconforto del contesto, mi soccorrono – per mia e nostra fortuna – le parole con le quali si chiude la monumentale Introduzione al Cristianesimo di Joseph Ratzinger (qui tante volte citata): Chi crede sa che si va “avanti”, non si gira intorno. Chi crede sa che la storia non assomiglia alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per venir continuamente disfatta. Anche il cristiano potrà essere assalito dagli incubi angoscianti, dell'inutilità di tutto […]. Ma nel suo incubo penetra la voce salvifica e trasformatrice della realtà: “Coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv. 16,33). Il mondo nuovo, raffigurato nell'immagine della nuova Gerusalemme con cui termina la Bibbia, non è un'utopia, ma una certezza a cui andiamo incontro nella fede. C'è una redenzione del mondo, ecco la ferma fiducia che sostiene il cristiano e che lo convince che anche oggi vale la pena di essere cristiano.

Direi che basta e avanza per avviarci al Nuovo Anno, magari oppressi ma non schiacciati, sconvolti ma non disperati (2 Cor. 4,8).

Infine, per salutarci e farci un piccolo ma decisivo augurio “pratico”, attingo, dal bel libro di un raffinato intellettuale Italiano che vive ed insegna a New York (Antonio Monda, Incontri ravvicinati, La Nave di Teseo, 2024), questa citazione  presa dalle sue memorie familiari (un finto proverbio cinese utilizzato dal padre coi figli): sei io ti do una cosa e tu me ne dai un'altra, alla fine ne abbiamo una entrambi. Ma se io ti do un'idea e tu me ne dai un'altra, alla fine ci ritroviamo entrambi con due idee. Ecco: che il 2025 ci arricchisca di scambi di idee (e anche che lo Spirito Santo ci aiuti a distinguere quelle che è bene trattenere in noi da quelle di cui possiamo tranquillamente disfarci)!

Roma, 31 dicembre 2024

 

giovedì 19 dicembre 2024

Natale 2024

 Rigenerazione

(di Felice Celato)

Ancora una volta al Natale che viene chiediamo una cosa, sempre nuova ed antica, di cui, in quest’anno terribile per il mondo, sentiamo (credo tutti) forte il bisogno, mai così forte, in questi anni recenti, come oggi: una rigenerazione. 

Ci pare (mi pare) forse di meritarla (in fondo, magari a Natale, ci sentiamo più buoni); ma non ne sono del tutto sicuro perché – se nulla possiamo sui minacciosi scenari esogeni – almeno qualcosa di meglio, nel contesto in cui più prossimamente viviamo, potremmo forse fare anche noi: per esempio esercitare quotidianamente quell’azione di discernimento (QUI ci vuole!) che ci renderebbe meno gregari, magari inconsapevoli, magari per pigrizia o per il fastidio di dire sempre il contrario di ciò che sentiamo dire; ma, ciò nondimeno, non meno colpevoli, quando fossimo certi – e io, molto immodestamente, ne sono certo – di disporre delle risorse mentali e spirituali per gridare “basta!” al comunismo delle manipolate opinioni prevalenti, fatte di slogan e di volontarie  proposte di facile fraintendimento. 

Ma a Natale anche il “basta!” stonerebbe; e così – per chi crede – meglio godersi il senso profondo dell’eterna scommessa che Dio ogni anno rinnova sull’uomo, sapendo – e come potrebbe Lui non saperlo? – che ancora una volta la perderà, perché nessun altro meglio di Lui sa che siamo fatti di fango; e che – per quante Risurrezioni abbiamo già vissuto – abbiamo sempre bisogno di una nuova redenzione, quella che il Bambino, venuto ad abitare fra di noi, ogni anno ci lascia intravvedere dalla grotta di Betlemme (mi hanno sempre colpito quelle immagini sacre che ritraggono il Bambino che già mostra la Croce).

Allora come non concludere questo rituale – ma non per questo meno affettuoso – augurio di Buon Natale con una riflessione (tratta dal Messaggio Urbi et Orbi del 25 XII 2010) di quel maestro nella fede che è stato (certamente per me) il grande papa Benedetto XVI? 

“Il Verbo si fece carne”. Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo. In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà. Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. E’ in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio. 

Al Logos venuto in mezzo a noi, chiediamo di non abbandonarci a noi stessi, nonostante tutto; nella certezza che non lo farà.

Roma, 19 XII 24

domenica 8 dicembre 2024

Pragmatismo

Ansia di comprensione

(di Felice Celato)

Questo post non è il frutto di una compiuta riflessione ma, come dice il titoletto, il frutto di un’ansia di comprensione; vorrei cioè capire – cosa che non mi è finora riuscita – che cosa si voglia veramente dire quando, sempre più frequentemente, si sente dire che la “bussola” di una politica (o di una parte politica) è il pragmatismo. Devo intendere – volendo far credito a questi affascinanti orientamenti e saccheggiando dai riferimenti filosofici che ho trovato sfogliando l’Enciclopedia Treccani – che per pragmatismo si intenda (nel migliore dei casi) l’atteggiamento che consiste nel privilegiare i risultati concreti, le applicazioni pratiche di ciascuna azione politica più che i principi o i valori ideali (che potrebbero costituire "l’ingombrante" fardello di ogni impostazione ideologica, magari della parte avversa).

E (direi: certamente) in larga misura un sano pragmatismo (come sopra inteso) è cosa buona e giusta, quando si tratta di scegliere fra una cosa buona (l’azione politica secondo ragione) e una cosa cattiva (l’azione politica non conforme alla ragione). [Del resto, diceva Benedetto XVI in un memorabile discorso di ben altro livello, non agire secondo ragione, σὺν λόγω, è contrario alla natura di Dio].

Ma mi domando (e vi domando, miei lettori): quale sarebbe, in politica, la cosa buona e giusta quando si tratta di scegliere fra beni diversi (al plurale) e fra mali diversi (al plurale) di un’azione politica? E ancora: fra beni di oggi e mali di domani invece che fra mali di oggi e beni di domani? [Faccio un esempio tratto dalle vicende recenti del nostro paese (i famosi super-bonus edilizi): fra un bene di oggi (il presidio della produzione del benessere, con un forte stimolo alla tenuta del famoso PIL, in un momento di grave crisi come lo furono le conseguenze economiche del Covid) e un male di domani (l’erosione delle entrate fiscali future)].

Certo, se l’azione politica consiste nell’amministrare il presente secondo ragione, un sano pragmatismo non può che essere una buona cosa, un saggio proposito. Ma se l’azione politica si affaccia sul futuro e sulla necessità di scegliere fra diversi beni o fra diversi mali, o (mi ripeto) fra beni di oggi e mali di domani, il sano pragmatismo non basta: ci vuole un certo progetto sul futuro della comunità che si dovrebbe guidare (questa è la leadership); e per fare un progetto ci vuole una visione del futuro (una vision, direbbero gli americani); e, ancora, per avere una visione sul futuro occorre avere un’idea di cosa è bene e di cosa è male per una comunità; e, in democrazia, sarebbe necessario comunicare con chiarezza questa visione a chi, in fondo (e senza affatto mitizzarne la saggezza), detiene il potere di determinare la scelta progettuale, cioè – nel nostro discorso – la scelta fra i diversi beni (al plurale) perseguibili e fra i diversi mali (al plurale) da scongiurare. Del resto, scrive il Censis, fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro. Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici (e questo, aggiungo io, non vale certo solo per chi è al governo!).

Capiranno bene, i miei lettori più intelligenti di me, che alla luce di queste considerazioni e di tante altre che potrebbero farsi al riguardo, urge capire se il sano pragmatismo come bussola della politica sia veramente la virtù (perché di virtù si tratta, beninteso) di cui abbiamo più bisogno per non solo galleggiare (copyright Censis).

Roma, 8 dicembre 2024, Immacolata Concezione e seconda domenica di Avvento