Yellow
birds
(di
Felice Celato)
Eccomi
qua con una nuova segnalazione; stavolta però sul libro che segnalo ho opinioni
assai critiche per i motivi che cercherò di mettere in ordine, come al solito
non per pretendere di proclamare “verità” critiche (che nemmeno esistono in
natura e che se esistessero certamente non sarei io a detenere!) ma per
continuare ad organizzare una mia riflessione su una passione (quella della
buone letture) alla quale questo complesso libro fornisce molti argomenti.
Al
libro di Kevin Powers ( Yellow birds,
Einaudi , 2013) sono stati attribuiti, soprattutto negli USA diversi e
prestigiosi premi che, curiosamente, ritengo anche meritati: l’autore è uno
scrittore (un poeta, c'è scritto sul risvolto di copertina) che fra il 2004 e il 2005, all’età di 18 anni, ha partecipato come
soldato alle operazioni americane in Iraq e la terribile vicenda raccontata è
molto verosimilmente frutto di drammatiche esperienze dirette. Questa è la
storia: due amici, in guerra insieme, combattono fianco a fianco per diversi
mesi; uno, l’autore (o, meglio: l’io narrante), si salva; l’amico muore in
circostanze particolarmente oscure che l’io narrante concorre a coprire per
nascondere la dinamica dei fatti, certamente non commendevole.
Come
è ovvio, si tratta di un racconto particolarmente duro dal punto di vista
umano, che delinea con commozione le condizioni psicologiche di ragazzi
trascinati in vicende delle quali faticano a comprendere il senso e che, per
loro natura, non possono non lasciare tracce indelebili nell’animo dei
protagonisti.
Ma,
ecco, è proprio questo il profilo che mi ha lasciato particolarmente perplesso.
Nel modo con cui (io) accedo alle mie letture c’è ovviamente la ricerca di un “senso”
che, come siamo venuti argomentando nel recente post su “E l’eco rispose”, affonda le sue radici nel concetto del racconto
come esplorazione dell’esistenza,
nelle sue innumerevoli manifestazioni anche solo interiori ma pur sempre legate
all’essere-nel-mondo e nel vortice della vita e della storia; e questo “senso” mi pare essere quello
che “nobilita” (o, forse meglio: giustifica al di là del puro “passatempo”) le
molte ore che dedico a questo mio interesse.
Bene:
ora, però, mi spingo a pensare che rispetto a questo “senso”, la narrazione
(come “fatto tecnico” in sé, ma potrei dirlo anche del linguaggio specie quando
diviene autonomo campo di ricerca) pone delle esigenze che rendano fruibile “l’insegnamento” (o, forse
meglio: l’acquisizione di quella mediata
consapevolezza di sé) che mi aspetto di trarre dal libro come risultato
“culturale”. In altre parole: la narrazione nel suo profilo “tecnico” non deve
porsi (sempre nella mia modestissima
opinione) come “ostacolo” a tale fruizione,
non deve, per così dire, creare una barriera fra il narrato ed il lettore tale
da rendere l’esplorazione dell’esistenza
più difficile di quanto non lo sia già in sé proprio in quanto “incerta”,
appunto come ogni esplorazione.
Da
questo forse distorto punto di vista, la narrazione di Kevin Powers mi è
sembrata….troppo commossa, troppo emozionata, quasi come se, sconfinando in
terreni troppo suggestivi e quindi talora impervi, rendesse difficile (confusa)
quella che ho chiamato la fruizione
del senso del narrato.
E’
fin troppo ovvio che nel mettere in fila queste riflessioni mi mostro
tributario di un concetto forse ristretto della letteratura, che potrebbe
suonare estremamente riduttivo a chi, invece, vi ravvede, con
maggior competenza di me, sensi e “scopi” assai più larghi e colti (per esempio
la sperimentazione di linguaggi); e, per di più, tale "mio" forse ristretto concetto potrebbe grossolanamente “sottovalutare” il peso che
nella storia della letteratura (soprattutto moderna) hanno pur avuto grandi
scrittori che io, modestamente, magari non amo. Mi conforta però il pensare che in
esso (cioè nel mio “concetto” di letteratura) ritrovo tutti i grandi autori che
più ho amato (da Manzoni a Joseph Roth, da Singer a Yehoshua, da Camus a
Buzzati).
Roma,
14 luglio 2013
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