E l’eco rispose
(di
Felice Celato)
Ho
letteralmente divorato il libro appena uscito E l’eco rispose (Piemme editore), di Khaled Hosseini (per
intenderci l’autore de Il cacciatore di
aquiloni e di Mille splendidi soli)
che consiglio a tutti.
Lo
spessore letterario non è, forse, straordinario (nel senso che l’autore non è
né Manzoni, né Joseph Roth, né Isaac Singer, per restare nell’ambito dei miei
“numi” narratori) e qualche tono può risultare eccessivamente elegiaco, ma le
storie che vi si raccontano sono talmente interessanti ed avvincenti (ed anche
ben narrate) da tenervi incollati alle pagine fino a tardissime ore.
La
storia dell’Afganistan vi fa da lontano sfondo (lontano da noi anche
“umanamente”) ma le esistenze narrate sono talmente vive e straordinarie per
intensità e drammaticità che si sarebbe portati a non crederle “vere” o,
meglio, “verosimili”.
[ Ricordo però che quando
andavo molto spesso a Londra per lavoro, mi veniva a prendere all’aeroporto la
macchina d’ufficio, guidata da un autista asiatico; dopo un po’ di volte, mi
ritenni autorizzato a chiedergli qualcosa di lui e mi sentii raccontare la sua
storia di fuga dall’Afganistan e di radicamento nella occidentalissima Londra;
una storia talmente interessante e avventurosa che gli chiesi se avesse mai
pensato di farsi aiutare a pubblicarla. Mi rispose che in realtà non vedeva
nella sua storia niente di straordinario perché tutti quelli che erano fuggiti
da quel tormentato paese avevano passato più o meno le stesse avventure, in
patria, durante la fuga e da noi. Cosa del resto confermatami da alcuni Afgani
che ho conosciuto profughi in Italia].
Il fascino
sentimentale del libro di cui stiamo parlando, mi ha portato a ripensare un
problema che, da accanito lettore, mi pongo spesso quando “giudico” un romanzo:
quanto “pesano” le storie narrate (il loro intrinseco contenuto) sul “valore”
(intendo: per me) del romanzo che leggo?
Direi:
molto, anzi moltissimo.
In
fondo, nella mia percezione (qui sono però confortato da un saggio/intervista
di Milan Kundera: L’arte del romanzo,
Adelphi, dal quale traggo molte delle espressioni che seguono), il romanzo non
è altro che un’ esplorazione
dell’esistenza, cioè, per dirla con Heidegger, del nostro essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein); un’esplorazione che
può rivolgersi al foro interiore (Proust, Joyce, etc.) o a quello esterno, dell’azione, in cui l’uomo rivela la
propria immagine nell’incontro con l’altro-da-sé (distinto o indistinto che
sia). In altri termini: una meditazione,
talora magari anche poetica, che ci fa
vedere cosa siamo e di cosa siamo capaci, svolta da un narratore che,
quando ha le qualità per farlo, intravvede con chiarezza nella storia narrata cosa è l’uomo gettato nel vortice della vita
(pensate a Kafka!) e, al tempo stesso, che cos’è la storia nelle sue
declinazioni esistenziali (Manzoni, J.Roth, etc).
Ecco
perché credo che i romanzi, la letteratura in generale, siano effettivamente
(come ho visto scritto da qualche parte) una grande fonte di consapevolezza di sé, una fonte mediata,
non diretta (perché non direttamente vissuta ma solo “immaginata” dal narratore),
ma non per questo meno preziosa, un ponte gettato fra la storia (quella
“vera”), la psicologia, la sociologia e la filosofia (e, talora, la poesia).
Credo che, anche al di là di ogni approccio religioso, abbiamo capito che cosa
è l’uomo più assai dai racconti della Bibbia che non da tante pure speculazioni
di filosofi, come ben hanno sempre avuto chiaro i nostri padri (culturali), gli
ebrei.
Tornando
al nostro libro, le trame raccontate di Hosseini sono complesse e spesso
contorte ma segnano in chiaro il senso delle impronte e delle ferite che le vicende della vita,
di cui gli uomini sono pur sempre co-autori (spesso inconsapevoli), lasciano sulle esistenze delle
umanità più indifese. Un tema, per me, molto interessante (che porrebbe anche
delicate questioni teologiche, ma su queste, qui sorvoliamo).
Roma
3 luglio 2013
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