venerdì 19 luglio 2013

Stupi-diario dell'indignazione

Emoticon
(di Felice Celato)

Da qualche tempo il Corriere della Sera (il giornale che leggo, ogni giorno, da 50 anni!) ha avviato una poco commendevole iniziativa che consiste nel sottoporre ogni notizia che appare sul quotidiano on-line al “giudizio” di istantanei opinionismi dei lettori, che si esprimono in emoticon (quelle faccette variamente atteggiate che servirebbero a esternare “sentimenti” e reazioni) oscillanti fra l’ilare “soddisfatto” e il corrucciato “indignato”, passando per “divertito”, il “preoccupato” ed il “triste”.
Facendo una grossolana rassegna degli emoticon prevalenti, constato che in larghissime maggioranze gli Italiani si sentono “indignati” di fronte alla gran parte delle notizie; raramente sono “soddisfatti”, talora “tristi”; ancora più raramente “preoccupati” (molto preoccupati, per esempio, oggi alle 16, sui guai tecnici del Dreamliner della Boeing ma anche per lo “smarrimento” della fertilità maschile). E se leggo invece l’angolo dei commenti più estesi, quelli dei “letterati” che non se la sentono di esprimere reazioni solo con una faccetta, dovrei dire “molto indignati”, come testimonia il largo ricorso, nei brevi “testi”, a maiuscole e punti esclamativi o interrogativi e anche a parole grossolane.
“L’indignazione” dunque è, apparentemente, il sentimento nazionale che si estrinseca anche, talvolta, in curiose composizioni quadratiche: oggi, per esempio, sotto il titolo “D&G ‘chiuso per indignazione’” ben il 58 % dei  lettori opinionisti si è dichiarato “indignato” (forse a sua volta).
Va da sé che i nostri bravi politici, sempre solleciti nell'ascolto delle nostre opinioni, non possono “restare insensibili” al grido di indignazione che si leva verso l’alto e quindi si preoccupano, in sequenza di: (a) mostrarsi a loro volta indignati, perché, direbbe la nostra ministra dell’Agricoltura, la maggioranza degli Italiani è indignata; e, (b) escogitare “azioni politiche” (meglio: “dichiarazioni politiche”) in linea con tale popolare indignazione.
Mah! Confesso che io sono “preoccupato”, molto preoccupato; per meglio esprimermi vorrei fare un emoticon, ma, semplicemente, non sono capace di disegnare coi simboli la mia preoccupazione.
Roma, 19 luglio 2013
                                                     

domenica 14 luglio 2013

Segnalazioni

Yellow birds
(di Felice Celato)
Eccomi qua con una nuova segnalazione; stavolta però sul libro che segnalo ho opinioni assai critiche per i motivi che cercherò di mettere in ordine, come al solito non per pretendere di proclamare “verità” critiche (che nemmeno esistono in natura e che se esistessero certamente non sarei io a detenere!) ma per continuare ad organizzare una mia riflessione su una passione (quella della buone letture) alla quale questo complesso libro fornisce molti argomenti.
Al libro di Kevin Powers ( Yellow birds, Einaudi , 2013) sono stati attribuiti, soprattutto negli USA diversi e prestigiosi premi che, curiosamente, ritengo anche meritati: l’autore è uno scrittore (un poeta, c'è scritto sul risvolto di copertina) che fra il 2004 e il 2005, all’età di 18 anni, ha partecipato come soldato alle operazioni americane in Iraq e la terribile vicenda raccontata è molto verosimilmente frutto di drammatiche esperienze dirette. Questa è la storia: due amici, in guerra insieme, combattono fianco a fianco per diversi mesi; uno, l’autore (o, meglio: l’io narrante), si salva; l’amico muore in circostanze particolarmente oscure che l’io narrante concorre a coprire per nascondere la dinamica dei fatti, certamente non commendevole.
Come è ovvio, si tratta di un racconto particolarmente duro dal punto di vista umano, che delinea con commozione le condizioni psicologiche di ragazzi trascinati in vicende delle quali faticano a comprendere il senso e che, per loro natura, non possono non lasciare tracce indelebili nell’animo dei protagonisti.
Ma, ecco, è proprio questo il profilo che mi ha lasciato particolarmente perplesso. Nel modo con cui (io) accedo alle mie letture c’è ovviamente la ricerca di un “senso” che, come siamo venuti argomentando nel recente post su “E l’eco rispose”, affonda le sue radici nel concetto del racconto come esplorazione dell’esistenza, nelle sue innumerevoli manifestazioni anche solo interiori ma pur sempre legate all’essere-nel-mondo e nel vortice della vita e della storia; e questo “senso” mi pare essere quello che “nobilita” (o, forse meglio: giustifica al di là del puro “passatempo”) le molte ore che dedico a questo mio interesse.
Bene: ora, però, mi spingo a pensare che rispetto a questo “senso”, la narrazione (come “fatto tecnico” in sé, ma potrei dirlo anche del linguaggio specie quando diviene autonomo campo di ricerca) pone delle esigenze che rendano fruibile “l’insegnamento” (o, forse meglio: l’acquisizione di quella mediata consapevolezza di sé) che mi aspetto di trarre dal libro come risultato “culturale”. In altre parole: la narrazione nel suo profilo “tecnico” non deve porsi (sempre nella mia  modestissima opinione) come “ostacolo” a tale fruizione, non deve, per così dire, creare una barriera fra il narrato ed il lettore tale da rendere l’esplorazione dell’esistenza più difficile di quanto non lo sia già in sé proprio in quanto “incerta”, appunto come ogni esplorazione.
Da questo forse distorto punto di vista, la narrazione di Kevin Powers mi è sembrata….troppo commossa, troppo emozionata, quasi come se, sconfinando in terreni troppo suggestivi e quindi talora impervi, rendesse difficile (confusa) quella che ho chiamato la fruizione del senso del narrato.
E’ fin troppo ovvio che nel mettere in fila queste riflessioni mi mostro tributario di un concetto forse ristretto della letteratura, che potrebbe suonare estremamente riduttivo a chi, invece, vi ravvede, con maggior competenza di me, sensi e “scopi” assai più larghi e colti (per esempio la sperimentazione di linguaggi); e, per di più, tale "mio" forse ristretto concetto  potrebbe grossolanamente “sottovalutare” il peso che nella storia della letteratura (soprattutto moderna) hanno pur avuto grandi scrittori che io, modestamente, magari non amo. Mi conforta però il pensare che in esso (cioè nel mio “concetto” di letteratura) ritrovo tutti i grandi autori che più ho amato (da Manzoni a Joseph Roth, da Singer a Yehoshua, da Camus a Buzzati).

Roma, 14 luglio 2013

Un verbo di uso comune

Chinarsi
(di Felice Celato)

D’estate rinfrescano, d’inverno riscaldano; nel senso che non ti lasciano mai come ti hanno trovato, le omelie di p. Ottavio De Bertolis (al Gesù di Roma, alle 10).
Oggi sono tornato a casa con una riflessione su un verbo d’uso comune, quotidiano, quasi banale, ma dalle insondate risonanze religiose ed etiche: il verbo è chinarsi; (riflessione che –è chiaro– solo muove, direi liberamente, da ciò che ho sentito e che non provo, qui, a riassumere, per motivi ovvii di luogo e di opportunità).
Ci si china, fisicamente, per raccogliere qualcosa, per passare sotto qualcosa più basso di noi, per mostrare reverenza o sommo riguardo verso qualcuno, sia che questo qualcuno meriti o non meriti la nostra reverenza, ci si china persino per allacciarsi i sandali, etc; ma ci si china anche, simbolicamente ed in ambito religioso, di fronte ai “misteri” della fede, di fronte alla misericordia divina, alla sovrabbondanza della grazia, di fronte alla Sua parola, di fronte alla semplicità e all’ardua completezza della Sua legge (“amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso”); ci si china, stavolta anche fisicamente, in chiesa, al momento della consacrazione come pure per ricevere la “benedizione solenne”.
Dunque, in generale, nell’accezione metaforico/religiosa del verbo chinarsi, ci si china di fronte a Dio, nelle sue manifestazioni misteriose (la latens Deitas del famoso inno di San Tommaso) e nelle sue “prescrizioni” semplici e difficili ad un tempo.
Fin qui, starei per dire, tutto facile, anche per il pio credente, che, in fondo, si inchina facilmente.
Il difficile e – come insegna la pericope di oggi — l’ essenziale sta nel chinarsi sugli altri, come appunto fa il buon Samaritano della parabola, il “laico” che da Gerusalemme scende verso Gerico.
Chinarsi sugli immigrati, sui maltrattati, sugli emarginati, sui più deboli, sugli altri in generale quando hanno bisogno di attenzione, di com-passione, di aiuto sia materiale che spirituale.
Bene: il verbo chinarsi racchiude, fra gli altri, tutti questi significati, mi pare di poter dire plastici. In tale plasticità sono racchiusi valori religiosi ed etici di importanza cruciale non solo per il credente ma anche per il laico.
Forse il verbo chinarsi (sugli altri) merita una centralità nella nostra vita, credenti o laici che siamo, una centralità che sfugge all’uso quotidiano e banale che di questo verbo siamo soliti fare; un'espressione, chinarsi sugli altri, da ricordare, tutti i giorni.
Roma 14 luglio 2013


martedì 9 luglio 2013

Stupi-diario del declino

Lungo la china
(di Felice Celato)
Un illustre amico, volendo stemperare con un po’ di sana ironia le mie fosche sintesi sulla natura della nostra crisi (voi lettori di questo blog, le conoscete a memoria: prima pensavo che fosse culturale, poi sono passato a ritenerla sociologica e, più recentemente, antropologica), mi ha domandato con arguzia: ”E il prossimo passo quale sarà?”.
Confesso che lì per lì non ho saputo che sorridere (in fondo, lasciatemene vantare, l’autoironia non mi è mai mancata).
Poi c’è stata la visita del Papa a Lampedusa: un evento intenso, commovente, di grande significato pastorale ed umano, secondo me un evento “storico” per la Chiesa moderna e per lo  “stile” della sua predicazione.
E inevitabilmente ci sono stati i commenti (alcuni commenti).
Qui mi si è accesa la luce: la nostra crisi antropologica comincia già ad avere dei contorni più preoccupanti, sta diventando crisi zoologica!

Roma 9 luglio 2013

mercoledì 3 luglio 2013

Letture

E l’eco rispose
(di Felice Celato)

Ho letteralmente divorato il libro appena uscito E l’eco rispose (Piemme editore), di Khaled Hosseini (per intenderci l’autore de Il cacciatore di aquiloni e di Mille splendidi soli) che consiglio a tutti.
Lo spessore letterario non è, forse, straordinario (nel senso che l’autore non è né Manzoni, né Joseph Roth, né Isaac Singer, per restare nell’ambito dei miei “numi” narratori) e qualche tono può risultare eccessivamente elegiaco, ma le storie che vi si raccontano sono talmente interessanti ed avvincenti (ed anche ben narrate) da tenervi incollati alle pagine fino a tardissime ore.
La storia dell’Afganistan vi fa da lontano sfondo (lontano da noi anche “umanamente”) ma le esistenze narrate sono talmente vive e straordinarie per intensità e drammaticità che si sarebbe portati a non crederle “vere” o, meglio, “verosimili”. 

[ Ricordo però che quando andavo molto spesso a Londra per lavoro, mi veniva a prendere all’aeroporto la macchina d’ufficio, guidata da un autista asiatico; dopo un po’ di volte, mi ritenni autorizzato a chiedergli qualcosa di lui e mi sentii raccontare la sua storia di fuga dall’Afganistan e di radicamento nella occidentalissima Londra; una storia talmente interessante e avventurosa che gli chiesi se avesse mai pensato di farsi aiutare a pubblicarla. Mi rispose che in realtà non vedeva nella sua storia niente di straordinario perché tutti quelli che erano fuggiti da quel tormentato paese avevano passato più o meno le stesse avventure, in patria, durante la fuga e da noi. Cosa del resto confermatami da alcuni Afgani che ho conosciuto profughi in Italia].

Il fascino sentimentale del libro di cui stiamo parlando, mi ha portato a ripensare un problema che, da accanito lettore, mi pongo spesso quando “giudico” un romanzo: quanto “pesano” le storie narrate (il loro intrinseco contenuto) sul “valore” (intendo: per me) del romanzo che leggo?
Direi: molto, anzi moltissimo.
In fondo, nella mia percezione (qui sono però confortato da un saggio/intervista di Milan Kundera: L’arte del romanzo, Adelphi, dal quale traggo molte delle espressioni che seguono), il romanzo non è altro che un’ esplorazione dell’esistenza, cioè, per dirla con Heidegger, del nostro essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein); un’esplorazione che può rivolgersi al foro interiore (Proust, Joyce, etc.) o a quello esterno, dell’azione, in cui l’uomo rivela la propria immagine nell’incontro con l’altro-da-sé (distinto o indistinto che sia). In altri termini: una meditazione, talora magari anche poetica, che ci fa vedere cosa siamo e di cosa siamo capaci, svolta da un narratore che, quando ha le qualità per farlo, intravvede con chiarezza nella storia narrata cosa è l’uomo gettato nel vortice della vita (pensate a Kafka!) e, al tempo stesso, che cos’è la storia nelle sue declinazioni esistenziali (Manzoni, J.Roth, etc).
Ecco perché credo che i romanzi, la letteratura in generale, siano effettivamente (come ho visto scritto da qualche parte) una grande fonte di consapevolezza di sé, una fonte mediata, non diretta (perché non direttamente vissuta ma solo “immaginata” dal narratore), ma non per questo meno preziosa, un ponte gettato fra la storia (quella “vera”), la psicologia, la sociologia e la filosofia (e, talora, la poesia). Credo che, anche al di là di ogni approccio religioso, abbiamo capito che cosa è l’uomo più assai dai racconti della Bibbia che non da tante pure speculazioni di filosofi, come ben hanno sempre avuto chiaro i nostri padri (culturali), gli ebrei.
Tornando al nostro libro, le trame raccontate di Hosseini sono complesse e spesso contorte ma segnano in chiaro il senso delle impronte e delle ferite che le vicende della vita, di cui gli uomini sono pur sempre co-autori (spesso inconsapevoli), lasciano sulle esistenze delle umanità più  indifese. Un tema, per me, molto interessante (che porrebbe anche delicate questioni teologiche, ma su queste, qui sorvoliamo).

Roma 3 luglio 2013