Una lettura nostalgica
(di Felice Celato)
Se è vero che l’incertezza del futuro è una costante delle nostre esistenze, è anche vero però, come diceva Seneca, che ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est (nessun vento è favorevole per chi non sa verso quale porto dirigersi). E questa mi pare la condizione del nostro mondo occidentale, questa simbiosi geopolitica ed economica che, come recita l’Enciclopedia Treccani, abbraccia un'estesa area che include le nazioni più ricche e industrializzate dell'Europa e dell'America, nonché l'Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone, e quei paesi accomunati, almeno idealmente, da determinate caratteristiche economiche e politiche: stato di diritto, liberalismo, liberismo economico, multipartitismo, tutela delle libertà fondamentali (di espressione e di associazione ecc.), sentite come l'eredità della democrazia e del pensiero razionalista sviluppatisi principalmente attraverso le vicende storico-culturali dell'Illuminismo e delle rivoluzioni americana e francese.
Ebbene, questo nostro mondo, in cui per quasi ottanta anni abbiamo vissuto senza prolungate e drammatiche scosse, sembra avvolto in una nebbia (di istanze gridate, di promesse o di minacce, di pulsioni e di irresistibili pruriti) che non solo nasconde ogni porto ma ci induce ad abbandonarci ad ogni vento, perché di ciascun vento cogliamo, per qualche tempo, la spinta che ci pare irresistibile. E all’interno di questo mondo, il nostro micro-cosmo Europeo (che si è fatto, come scriveva Joseph Ratzinger, attraverso la fede cristiana che porta in sé l'eredità di Israele, ma insieme accogliendo in sé il meglio dello spirito greco e romano) sembra anch’esso confuso quant’altro mai nella sua più breve storia recente; da un lato, quasi incapace di auto-riconoscersi nella meravigliosa impresa di pace e di progresso iniziata a valle della immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale; e, dall’altro, forse incapace di porre mano a quant’occorra fare per preservarne il valore.
In questo tempo così oscuro mi colpisce ogni giorno (soprattutto da noi) il contrasto fra la complessità e l’insicurezza degli scenari, da un lato, e, dall’altro, la semplificazione che sembra, da ogni parte, essere domandata alla politica e che da questa viene offerta a piene mani, attraverso slogan al posto dei ragionamenti, illusioni al posto delle realtà, semplificazioni al posto delle complessità di molti problemi, temporanee vie d’uscita al posto di soluzioni lungimiranti.
In questo mood inquieto è venuta a collocarsi una lettura in qualche modo nostalgica: di Giuseppe De Rita, Oligarca per caso (Solferino, 2024). Si tratta, in fondo, di un libro di memorie di tempi recenti, pervaso da una più che giustificata soddisfazione per il lavoro fatto, scritto da uno dei nostri grandi vecchi che ha percorso una vita a domandarsi come siamo fatti noi italiani, analizzando attentamente le morfologie delle nostre aggregazioni sociali, per coglierne i profondi significati, le insite dinamiche, i valori che esse esprimono e anche i limiti che esse manifestano. Una lettura che raccomando, soprattutto a chi, come me, …dal presente trae un flusso di nostalgie (di idee, di persone, di metodi).
La tesi cui allude il titolo è che De Rita è stato, a suo modo e con fierezza, un oligarca (in questo senso: l'oligarca ha un tessuto di potere che non dipende da un mandato verticale che cala dall'alto: quello è il gerarca, il cui potere finisce quando cade il suo dante causa. Il potere dell'oligarca sta nella capacità di tessere rapporti in linea orizzontale con quelle cento-duecento persone che in un sistema complesso possono sì regolare singole materie, ma hanno sempre bisogno di confrontarsi con gli altri).
Da questa tessitura può nascere una felice azione politica, quando si coniuga con l’intenzionalità (cioè: con la voglia di raggiungere un obiettivo preciso agendo di conseguenza) che dovrebbe essere propria dell’agire politico (e De Rita ricorda nel libro i suoi tanti no alla politica). Ma questo è un discorso diverso che chiama in campo, non solo la tessitura di rapporti in linea orizzontale di cui l’oligarca è capace, ma soprattutto la sua capacità di aggregare il consenso, strutturato e competente, di cui l’agire politico dovrebbe nutrirsi.
Ce ne è abbastanza, credo, per non dover giustificare la nostalgia della quale mi si è connotata la lettura del libro di De Rita.
Roma, 17 novembre 2024