giovedì 20 febbraio 2025

Per l'igiene del linguaggio

Un appello a noi tutti

(di Felice Celato)

In mezzo ai terrificanti scenari che ogni giorno vediamo evocati (non sempre lucidamente) sui nostri giornali, non dovrebbe esserci spazio per un semplice appello all’igiene del linguaggio, me ne rendo conto. 

L’igiene del linguaggio  potrebbe apparire una futile ricetta di un medico folle che raccomandi ad un moribondo, chessò, di lavarsi accuratamente i denti, anche sul letto di morte. Ma se realizziamo che il linguaggio (non solo verbale) è il veicolo che usiamo per comunicare pensieri o sentimenti sulla nostra realtà interiore o sulla realtà esterna; e che esso finisce per trasmettere impulsi alla riflessione e all’azione anche quando a queste non è positivamente orientato; e che, quindi, esso  postula (entro un certo grado) la necessità di una non equivoca corrispondenza fra significati e significanti;  allora ci rendiamo conto di come l’igiene di tali impulsi è (anche) di fondamentale importanza per la convivenza civile e (anche) per la formazione di una volontà politica all’interno delle moderne democrazie (in cui, più o meno consapevoli, viviamo).

Per non divagare su un tema così vasto, mi soffermerò sul “caso” che ha determinato questo appello: i riferimenti all’Europa (qui intesa come UE). Bene (si fa per dire); fateci caso: nel linguaggio corrente (di media irresponsabili o di politici che si reputano scaltri), non c’è riferimento all’Europa che non abbia un lamentoso (e stereotipato) senso di riprovazione: l’Europa è assente, l’Europa è inconsistente, l’Europa non riesce ad elaborare una linea politica che non sia semplicemente rivolta all’interno di se stessa, per creare regole e burocrazie, l’Europa è vacuamente velleitaria, etc.etc.etc.

Sarebbe da sciocchi negare l’esistenza di alcuni di questi problemi. Del resto anche rapporti pensosi, pensati ed autorevolissimi come il recente Rapporto Draghi o il Rapporto Letta focalizzano – con spirito costruttivo, però – le molte ed importanti cose da fare per migliorare l’efficacia di questo magnifico progetto di pace e di prosperità che i nostri padri ci hanno edificato e che tanto ha giovato al nostro continente. 

Però – rendiamocene conto anche noi, nei nostri linguaggi – vale anche qui un concetto che ho più volte sintetizzato con questo ovvioma: l’Europa siamo noi! Anzi, in virtù del mandato conferito ai nostri rappresentanti politici all’atto della loro elezione, l’Europa, per noi cittadini mandanti, la fanno loro che lì ci rappresentano e lì operano (o dovrebbero operare) per nostro conto e nel nostro interesse. Le volontà dell’Europa la fanno loro, le grandi realizzazioni della nostra patria Europea sono merito loro (o, più realisticamente, dei loro predecessori); e, se siamo onesti con noi stessi, lo dobbiamo riconoscere a loro merito (e non solo quando incassiamo i denari del PNRR!). Ma – teniamolo bene in mente – sono anche loro (per nostro conto) i responsabili di ciò che in Europa (se del caso) non va. Le volontà dell’Europa sono le volontà dei suoi cittadini, che i loro rappresentanti sono tenuti ad incarnare e a portare avanti, con mediazioni, compromessi e diplomazia, nel nostro piccolo Paese come nell’Europa di cui facciamo parte e che abbiamo felicemente contribuito a fondare! 

Certo, devono farlo in un contesto di interessi diversi, talora divergenti (come, del resto, potrebbero esserlo, chessò, gli interessi a certe politiche nazionali dei siciliani o dei lombardi). E questo è vero quand’anche, nelle spesso non decorose campagne elettorali cui assistiamo, ammiccano – per meri istanti di miope propaganda – a scettiche volontà comunitarie, o a riserve mentali che non fanno onore né a chi le coltiva né a chi acriticamente le diffonde né a chi passivamente le ingurgita! 

Se fosse saggio pesare per come appaiono le presenti torsioni geo-politiche globali, dovremmo concludere che oggi – una volta di più – non abbiamo percorribili alternative che non siano foriere di disastri, politici, economici, civili e democratici. Abbiamo una strada tracciata, imboccata e per un lungo tratto percorsa; una strada che implica sforzi, compromessi, complessità – spesso pesanti – da affrontare e da gestire; ma – ancora una volta – non abbiamo alternative che non siano di regresso, di ripiegamento, di frustrazione, di insignificanza. Tutto ciò che sapremo fare per andare avanti in Europa e per l’Europa sarà un merito dei nostri rappresentanti (e perciò nostro); tutto ciò che non sapranno o non vorranno fare sarebbe una loro (e quindi nostra) tragica responsabilità.

Roma, 20 febbraio 2025

martedì 11 febbraio 2025

Letture fuori del tempo

 Anagnosi-terapia

(di Felice Celato)

Mi è difficile negare che, in questo periodo, abbia cercato – nel contatto col mondo e con gli amici – la via della fuga dal reale (contemporaneo). Una fuga che – per me – si origina da un crescente fastidio per i rumori terrificanti del mondo, del paese e della mia amatissima patria, l’Europa, travagliata dalla pochezza di molte leadership dei paesi partners, che spesso trasferiscono sull’Europa (con la complicità di molti media) i mali che essi stessi cagionano o, in Europa, le provocazioni delle loro domestiche campagne elettorali (l’ultima: AfD invoca due diverse monete Europee, l’euro del Sud e l’euro del Nord).

Per questo ho “inventato” la cura che dà il titolo a questo post (anagnosi-terapia) che vorrebbe richiamare, attingendo al greco antico, il concetto terapeutico di alcune letture (anagnosi, sta infatti per lettura, forse come riconoscimento dei simboli grafici).

Ne è conseguito che le molte ore dedicate alla lettura si sono rivolte alla ri-lettura di vecchi libri letti più volte (dall’”eterno” Requiem di Antonio Tabucchi, al Vangelo secondo Pilato di Eric Emmanuel Schmitt, a Lo straniero di Albert Camus, a Il muro invisibile di Harry Bernstein),magari studiando anche l’evoluzione dei miei giudizi (esercizio quanto mai interessante, per “verificare” se stessi alla luce del tempo che inevitabilmente muta anche le sensibilità); oppure a temi “esoterici” (per esempio il libro di un neuro-biologo americano - Angus Fletcher - che analizza i benefici umani dello Storythinking, il pensare in termini di azioni e non in termini di equazioni…e di altro materiale logico, come strumento di conoscenza e di crescita umana); o a temi programmaticamente fuori del tempo (come Alla corte di mio padre, una bella ed interessantissima auto-biografia, anche sociologica, del sommo narratore Isaac Singer, giovanissimo ai tempi del narrato); o anche a temi eterni e, per ciò stesso, oggi quanto mai, desueti ( il Geremia, utilizzato per un esercizio spirituale condotto da Carlo Maria Martini, nel 1993 a Caracas). Mi soffermo brevemente su questo ultimo, perché la mia scelta, fra le tante possibili per non occuparmi dell’oggi, non può non essere stata misteriosamente ispirata dall’innegabile… contemporaneità del profeta di sciagure, che – parlando per immagini di straordinaria efficacia – viveva la sofferenza del suo drammatico profetare in tempi assai amari per Gerusalemme, quando l’alleanza (la mutua adesione, dell’uomo a Dio e di Dio all’uomo, simboleggiata dall’immagine della cintura di lino) sembrava naufragare nelle sciagure del tempo.

Che le ore dedicate a queste letture abbiano “sacrificato” la lettura dei giornali è ovvio; ma è anche voluto. E non ne provo rimorso alcuno (anche perché quando riapro un giornale faccio fatica a pensare in quale giorno siano stati scritti molti articoli). Però mi domando quanto possa durare questa sospensione; resisterà al Festival di Sanremo, alle sue seduzioni, di cui il nostro paese sembra innamorato? Nella irrealistica ipotesi che duri solo poco più di sei o sette giorni, ho pianificato di affrontare la ri-lettura de I Promessi sposi, stavolta  nientemeno che in e-book per legare le ore di lettura al tavolo con quelle della lettura a letto (dove i grossi tomi mi sono scomodi). Don Lisander, da lassù, probabilmente chiuderà un occhio.

Roma, 11 febbraio 2025, anniversario dei Patti Lateranensi

 

sabato 18 gennaio 2025

L'assente

 Elogio del dubbio

(di Felice Celato)

Seguo spesso, sui giornali ma anche – magari mentre  guido - su Radio Radicale, i pressoché quotidiani dibattiti parlamentari; che però mi sono di altrettanto quotidiano sconforto, al punto di farmi radicalmente dubitare sulla loro (residua) utilità. 

Ciò che mi sconforta è un’assenza inquietante: l’assenza del dubbio dagli enunciati, sempre più marcata man a mano che “sale” il vigore (sempre comunque alto) delle asserzioni: solo certezze, di infinita saggezza dell’agire politico della maggioranza o di totale insensatezza (se non di criminale intenzionalità) di tale agire nell’ottica della minoranza. E ciò anche quando la materia dibattuta è di estrema delicatezza e complessità come, per esempio, la vexata quaestio – aspramente discussa in queste ultime settimane – della cosiddetta separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti e, soprattutto, della sua concreta attuazione [del resto se, come è possibile, ci sarà un referendum avremo modo di rifletterci in maniera più cosciente, quando il gran parlare sarà diventato, appunto, norme concrete, ancorché soggette a referendum]; oppure quando la materia dibattuta comporta, per sua natura (vedansi, per esempio, i temi economici o di politica fiscale), un bilanciamento di pro e di contra assai difficili da valutarsi ex ante e comunque altamente dipendenti anche da visioni del mondo (la Weltanshauung, dei filosofi) assai divergenti e, magari, talora inconciliabilmente opposte.

Si dirà che in fondo la “politica politicata” deve necessariamente propinare certezze, sia sulle linee d’azione della maggioranza governante sia sulle ragioni della minoranza opponente; e che, ancora in fondo in fondo, il vero taciturno interlocutore è proprio l’ascoltatore lontano dalle aule parlamentari, cioè quello che io chiamo il destinatario dell’offerta politica, il popolo elettore; e che, quindi, in sé, ogni dibattito parlamentare è fattualmente disassato, cioè apparentemente svolto fra falsi interlocutori funzionali (cioè i parlamentari votanti) ma in realtà rivolto all’esterno, all’interlocutore non presente in aula, o tutt’al più ai suoi araldi (i giornalisti parlamentari, poveri loro, incaricati di riferirne al popolo elettore).

Diceva Voltaire che il dubbio è scomodo ma solo gli imbecilli non ne hanno; e poiché escludo – nel modo più categorico, perbacco! – che i nostri parlamentari considerino il popolo elettore (cioè chi li ha mandati a governare o ad opporsi, chi – in sostanza – li ha votati) un aggregato di imbecilli, devo concludere che i nostri parlamentari vogliano solo – generosamente, per carità!– preservarci dalle scomodità del dubbio, propinandoci le loro indubitabili certezze del momento, anche al rischio di accollarsi, però, loro stessi, personalmente, il Voltaireiano sospetto di imbecillità.  

Se lo fanno con questa intenzione, mi sentirei di rivolgere loro una cortese preghiera: per favore non tentate di preservarci dalla scomodità del dubbio, mantenete a nostro carico questo fardello, perché il dubbio è profondamente appassionante (come diceva Oscar Wilde); così, quando indirettamente vi rivolgete a noi (fingendo di dibattere fra voi), non propinateci indubitabili certezze perché ci farebbero dubitare di voi (e quindi della nostra sperata saggezza di elettori, della quale, pure, non vogliamo dubitare). Mi rendo conto che questo guasterà il "piacere" di ascoltarvi litigare, ma ce ne faremo una ragione!

Roma  18 gennaio 2025

 

 

 

domenica 5 gennaio 2025

Tempus regit actus

Divagazioni latine

(di Felice Celato)

Tempus regit actum  (insegnano i giuristi processualisti), per intendere che ogni atto va valutato  secondo la disciplina vigente al momento del suo compimento; ma oggi – chissà perché – mi viene in mente di mettere actum al plurale (actus, accusativo plurale), liberamente traducendo così: il tempo (per noi uomini: l’età) “governa” gli atti. Me ne accorgo soprattutto (ma non solo, purtroppo!) quando gioco a golf! Il tempo governa la qualificazione dei nostri atti! Benedetto il tempo, che ci dà continuamente la misura del suo decorrere... ricordandoci che fugit irreparabile tempus (diceva Virgilio).

Roma 5 gennaio 2025

martedì 31 dicembre 2024

HAPPY NEW YEAR

Il finto proverbio cinese per il 2025

(di Felice Celato)

Sarà difficile l’anno che viene, inutile nasconderselo; difficile ed enormemente rischioso, come ci scrivono, con solidi argomenti, i nostri commentatori più seguiti; inutile – anzi: addirittura altamente dannoso per l’umore – fare, qui, un analitico censimento delle inquietanti correlazioni che collegano fra loro gli scenari dei vari mondi di cui facciamo parte (la Terra, infestata da prepotenze e da violenze fisiche e verbali; il genere umano, tanto spesso dimentico di se stesso; l’Europa sull’orlo di una  folle crisi identitaria; il nostro povero Paese, galleggiante nella banalità dei suoi slogan ad uso di menti pigre).

Nello sconforto del contesto, mi soccorrono – per mia e nostra fortuna – le parole con le quali si chiude la monumentale Introduzione al Cristianesimo di Joseph Ratzinger (qui tante volte citata): Chi crede sa che si va “avanti”, non si gira intorno. Chi crede sa che la storia non assomiglia alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per venir continuamente disfatta. Anche il cristiano potrà essere assalito dagli incubi angoscianti, dell'inutilità di tutto […]. Ma nel suo incubo penetra la voce salvifica e trasformatrice della realtà: “Coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv. 16,33). Il mondo nuovo, raffigurato nell'immagine della nuova Gerusalemme con cui termina la Bibbia, non è un'utopia, ma una certezza a cui andiamo incontro nella fede. C'è una redenzione del mondo, ecco la ferma fiducia che sostiene il cristiano e che lo convince che anche oggi vale la pena di essere cristiano.

Direi che basta e avanza per avviarci al Nuovo Anno, magari oppressi ma non schiacciati, sconvolti ma non disperati (2 Cor. 4,8).

Infine, per salutarci e farci un piccolo ma decisivo augurio “pratico”, attingo, dal bel libro di un raffinato intellettuale Italiano che vive ed insegna a New York (Antonio Monda, Incontri ravvicinati, La Nave di Teseo, 2024), questa citazione  presa dalle sue memorie familiari (un finto proverbio cinese utilizzato dal padre coi figli): sei io ti do una cosa e tu me ne dai un'altra, alla fine ne abbiamo una entrambi. Ma se io ti do un'idea e tu me ne dai un'altra, alla fine ci ritroviamo entrambi con due idee. Ecco: che il 2025 ci arricchisca di scambi di idee (e anche che lo Spirito Santo ci aiuti a distinguere quelle che è bene trattenere in noi da quelle di cui possiamo tranquillamente disfarci)!

Roma, 31 dicembre 2024

 

giovedì 19 dicembre 2024

Natale 2024

 Rigenerazione

(di Felice Celato)

Ancora una volta al Natale che viene chiediamo una cosa, sempre nuova ed antica, di cui, in quest’anno terribile per il mondo, sentiamo (credo tutti) forte il bisogno, mai così forte, in questi anni recenti, come oggi: una rigenerazione. 

Ci pare (mi pare) forse di meritarla (in fondo, magari a Natale, ci sentiamo più buoni); ma non ne sono del tutto sicuro perché – se nulla possiamo sui minacciosi scenari esogeni – almeno qualcosa di meglio, nel contesto in cui più prossimamente viviamo, potremmo forse fare anche noi: per esempio esercitare quotidianamente quell’azione di discernimento (QUI ci vuole!) che ci renderebbe meno gregari, magari inconsapevoli, magari per pigrizia o per il fastidio di dire sempre il contrario di ciò che sentiamo dire; ma, ciò nondimeno, non meno colpevoli, quando fossimo certi – e io, molto immodestamente, ne sono certo – di disporre delle risorse mentali e spirituali per gridare “basta!” al comunismo delle manipolate opinioni prevalenti, fatte di slogan e di volontarie  proposte di facile fraintendimento. 

Ma a Natale anche il “basta!” stonerebbe; e così – per chi crede – meglio godersi il senso profondo dell’eterna scommessa che Dio ogni anno rinnova sull’uomo, sapendo – e come potrebbe Lui non saperlo? – che ancora una volta la perderà, perché nessun altro meglio di Lui sa che siamo fatti di fango; e che – per quante Risurrezioni abbiamo già vissuto – abbiamo sempre bisogno di una nuova redenzione, quella che il Bambino, venuto ad abitare fra di noi, ogni anno ci lascia intravvedere dalla grotta di Betlemme (mi hanno sempre colpito quelle immagini sacre che ritraggono il Bambino che già mostra la Croce).

Allora come non concludere questo rituale – ma non per questo meno affettuoso – augurio di Buon Natale con una riflessione (tratta dal Messaggio Urbi et Orbi del 25 XII 2010) di quel maestro nella fede che è stato (certamente per me) il grande papa Benedetto XVI? 

“Il Verbo si fece carne”. Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo. In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà. Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. E’ in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio. 

Al Logos venuto in mezzo a noi, chiediamo di non abbandonarci a noi stessi, nonostante tutto; nella certezza che non lo farà.

Roma, 19 XII 24

domenica 8 dicembre 2024

Pragmatismo

Ansia di comprensione

(di Felice Celato)

Questo post non è il frutto di una compiuta riflessione ma, come dice il titoletto, il frutto di un’ansia di comprensione; vorrei cioè capire – cosa che non mi è finora riuscita – che cosa si voglia veramente dire quando, sempre più frequentemente, si sente dire che la “bussola” di una politica (o di una parte politica) è il pragmatismo. Devo intendere – volendo far credito a questi affascinanti orientamenti e saccheggiando dai riferimenti filosofici che ho trovato sfogliando l’Enciclopedia Treccani – che per pragmatismo si intenda (nel migliore dei casi) l’atteggiamento che consiste nel privilegiare i risultati concreti, le applicazioni pratiche di ciascuna azione politica più che i principi o i valori ideali (che potrebbero costituire "l’ingombrante" fardello di ogni impostazione ideologica, magari della parte avversa).

E (direi: certamente) in larga misura un sano pragmatismo (come sopra inteso) è cosa buona e giusta, quando si tratta di scegliere fra una cosa buona (l’azione politica secondo ragione) e una cosa cattiva (l’azione politica non conforme alla ragione). [Del resto, diceva Benedetto XVI in un memorabile discorso di ben altro livello, non agire secondo ragione, σὺν λόγω, è contrario alla natura di Dio].

Ma mi domando (e vi domando, miei lettori): quale sarebbe, in politica, la cosa buona e giusta quando si tratta di scegliere fra beni diversi (al plurale) e fra mali diversi (al plurale) di un’azione politica? E ancora: fra beni di oggi e mali di domani invece che fra mali di oggi e beni di domani? [Faccio un esempio tratto dalle vicende recenti del nostro paese (i famosi super-bonus edilizi): fra un bene di oggi (il presidio della produzione del benessere, con un forte stimolo alla tenuta del famoso PIL, in un momento di grave crisi come lo furono le conseguenze economiche del Covid) e un male di domani (l’erosione delle entrate fiscali future)].

Certo, se l’azione politica consiste nell’amministrare il presente secondo ragione, un sano pragmatismo non può che essere una buona cosa, un saggio proposito. Ma se l’azione politica si affaccia sul futuro e sulla necessità di scegliere fra diversi beni o fra diversi mali, o (mi ripeto) fra beni di oggi e mali di domani, il sano pragmatismo non basta: ci vuole un certo progetto sul futuro della comunità che si dovrebbe guidare (questa è la leadership); e per fare un progetto ci vuole una visione del futuro (una vision, direbbero gli americani); e, ancora, per avere una visione sul futuro occorre avere un’idea di cosa è bene e di cosa è male per una comunità; e, in democrazia, sarebbe necessario comunicare con chiarezza questa visione a chi, in fondo (e senza affatto mitizzarne la saggezza), detiene il potere di determinare la scelta progettuale, cioè – nel nostro discorso – la scelta fra i diversi beni (al plurale) perseguibili e fra i diversi mali (al plurale) da scongiurare. Del resto, scrive il Censis, fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro. Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici (e questo, aggiungo io, non vale certo solo per chi è al governo!).

Capiranno bene, i miei lettori più intelligenti di me, che alla luce di queste considerazioni e di tante altre che potrebbero farsi al riguardo, urge capire se il sano pragmatismo come bussola della politica sia veramente la virtù (perché di virtù si tratta, beninteso) di cui abbiamo più bisogno per non solo galleggiare (copyright Censis).

Roma, 8 dicembre 2024, Immacolata Concezione e seconda domenica di Avvento