venerdì 27 giugno 2025

Quid est veritas?

Fra reti e potere

(di Felice Celato)

Non so se capita a tutti i miei lettori, nel seguire le angosciose vicende del nostro mondo, di ripensare a questa inquietante domanda che lo scettico Pilato rivolge a Gesù nel corso dell’intenso colloquio che portò al democratico “Crucifige!” (vedasi, al riguardo, il saggio di Gustavo Zagrebelsky Il “crucifige” e la democrazia, qui segnalato col post Letture – La democrazia critica, del 13 settembre 2013). Gesù gli aveva detto (Gv.18,37 e seg.): “Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per dare testimonianza alla verità”. “Che cos’è la verità?” Gli/si domanda  Pilato.

Un recente libro di Yuval Noah Harari (Nexus, Bompiani, 2024) – del quale consiglio la lettura, ancorché per qualche aspetto mi abbia lasciato perplesso – affronta il problema partendo dal concetto di realtà; ne riporto qui un passo cruciale (le sottolineature sono mie): Per quanto ne sappiamo, prima della comparsa delle storie l’universo conteneva solo due livelli di realtà. Le storie ne hanno aggiunto un terzo. I due livelli di realtà precedenti alla narrazione sono la realtà oggettiva e la realtà soggettiva. La realtà oggettiva consiste in cose come pietre, montagne e asteroidi, cose che esistono indipendentemente dal fatto che ne siamo consapevoli o meno. Un asteroide che sfreccia verso il pianeta Terra, per esempio, esiste anche se nessuno sa che c’è là fuori. Poi c’è la realtà soggettiva: cose come il dolore, il piacere e l’amore che non sono “là fuori”, ma piuttosto “qui dentro”. Le cose soggettive esistono nella nostra consapevolezza di esse. Un dolore non percepito è un ossimoro. Però alcune storie sono in grado di creare un terzo livello di realtà: la realtà intersoggettiva. Mentre le cose soggettive come il dolore esistono in una singola mente, le cose intersoggettive come le leggi, gli dèi, le nazioni, le società e le valute esistono grazie alla connessione tra un gran numero di menti. Più precisamente, esistono nelle storie che la gente si racconta. Le informazioni che gli esseri umani si scambiano sulle cose intersoggettive non rappresentano qualcosa che esisteva già prima dello scambio di informazioni: in effetti è lo scambio di informazioni che crea queste cose.

Dunque, nell’era delle reti di informazione (che hanno fatto e disfatto il nostro mondo) la domanda di Pilato trova un senso inquietante, che rimanda al cruciale concetto del controllo critico delle reti di informazione, specialmente (ma non certo esclusivamente) nel contesto di sistemi democratici che si basano – appunto – sul consenso, sulle storie che la gente si racconta (la cosiddetta pubblica opinione, per dirla in linguaggio corrente).

Ce n’è abbastanza, credo, per tarare le nostre opinioni sulla consapevole ambiguità delle realtà intersoggettive nelle quali siamo immersi, vittime e protagonisti delle nostre storie.

Certo, come scriveva Zagrebelsky a conclusione del suo bellissimo saggio, c’è il rimedio della democrazia critica (che deve mobilitarsi contro chi rifiuta il dialogo, nega la tolleranza, ricerca soltanto il potere, crede di avere sempre ragione). Della democrazia critica, la mitezza – come atteggiamento dello spirito aperto al discorso comune, che aspira non a imporsi ma a convincere ed è disposto a farsi convincere – è certamente la virtù cardinale. Ma solo il figlio di Dio poté essere mite come l'agnello muto. Nella politica la mitezza, per non farsi irridere come imbecillità, deve essere una virtù reciproca. Se non lo è, ad un certo punto, prima della fine, bisogna rompere il silenzio e agire per cessare di subire.

Ecco: in questo crogiuolo di impotenze (come “domare” le straripate realtà intersoggettive?) e di ardui rimedi (come cessare di subire?) sta tutto il senso del lungo silenzio di queste nostre conversazioni asincrone; delle quali – del resto – non posso non ammettere la nostalgia.

Roma, 27 giugno 2025

 

 

sabato 19 aprile 2025

AUGURI PASQUALI 2025

 

Da quando ho deciso di sospendere l’alimentazione di questo blog, da troppo tempo sconsolato e, forse, sconsolante (cfr. ultimo post di quasi un mese fa), “qualcosa di… civilmente confortante da commentare” non l’ho ancora trovato nelle più recenti vicende del mondo di questi tempi. E dunque mi sono tenuto lontano dalla tastiera.

 

Ma, per Pasqua, almeno qualcosa di spiritualmente confortante sono tornato a trovarlo, rileggendo ancora una volta la bella raccolta Settimana santa (Queriniana 2012), contenente alcune meditazioni di Karl Rahner e di Joseph Ratzinger. E, appunto, di quest’ultimo, voglio proporre ai miei lettori una breve preghiera Pasquale per formulare a tutti gli amici fideles un affettuoso augurio di trovare e custodire nel proprio animo il perenne significato della Resurrezione; e, agli amici “laici”, un non meno affettuoso augurio di godersi almeno una piacevole vacanza, in vista anche del laicissimo Anniversario della Liberazione (in fondo, anche una piacevole vacanza fa bene allo spirito!).

 

Signore Gesù Cristo, nell'oscurità della morte, tu hai fatto che sorgesse una luce; nell'abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del tuo amore; in mezzo al tuo nascondimento possiamo ormai cantare l'alleluia dei salvati. 

 

Concedici l'umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando tu ci chiami nelle ore del buio, dell'abbandono, quando tutto sembra apparire problematico; concedici in questo tempo nel quale attorno a te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. 

 

Fai brillare il mistero della tua gioia Pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. 

 

Concedici che attraverso i giorni luminosi ed oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci in cammino verso la tua gloria futura. Amen

 

Roma, 19 aprile 2025 

lunedì 24 marzo 2025

Nuovi e vecchi sconforti

Ri-leggendosi

(di Felice Celato)

Da quello che sento dire dalle (poche) persone con le quali mi piace commentare i nostri tempi, constato che il presente (grave) sconforto per quello che ogni giorno dobbiamo (melius: dovremmo) leggere non è solo un mio sentire da vecchio brontolone o da lamentoso pessimista. E’ invece un diffuso sentimento di sgomento e di tristezza.

Non sto qui ad enumerarne le molte ragioni e le tantissime occasioni. Il mondo mi pare una enorme variabile impazzita; il nostro milieu quasi il passivo riflesso del cupo orizzonte che dovremmo lasciare in eredità ai nostri nipoti, senza negarci che ne siamo gli autori, inconsapevoli ma forse corresponsabili.

Per esorcizzare questa tetraggine, mi provo di tanto in tanto a ripercorre, nei vari commenti che in questi quasi 15 anni ho cercato di allineare su questo piccolo blog, le sensazioni e le riflessioni via via proposte ai miei amici da quel lontano aprile 2011, quando ho cominciato a…. tormentarli. L’intento di questo esercizio è soltanto quello di misurare se nei quasi mille post, anche lontani dal presente, siano mai fioriti accenti di durevole conforto. Ebbene, sì, ci sono stati, rari ma…, lo confesso, poco durevoli; in larga prevalenza, questi 15 anni sono passati ad allineare geremiadi (ovviamente – ne sono conscio – compatite dagli amici, meno cupi di me, che – ciononostante – hanno continuato a leggermi). Ma il mood più costante è stato quello, appunto, della geremiade. 

Lasciatemi però tentare una difesa che vada oltre quella dell’età avanzata. Vi propongo un esercizio: provate a rileggere, per esempio, questo post socio-psichiatrico che, ispirato al contesto politico domestico, vi avevo propinato, anche con intento “giocoso”, giusto dieci anni fa (il 20 marzo 2015 https://felicecelato.blogspot.com/2015/03/stupi-diario-socio-psichiatrico.html ) e ditemi se vi pare (ancora) vagamente divertente o, invece, come pare a me, tuttora (10 anni dopo) terribilmente attuale; anzi, oggi, direi, terribilmente attuale su scala globale.

Rinfrescato mentalmente da un odierno articolo su Il Foglio (Rileggere Fukuyama per capire il Trumpismo, di Michele Silenzi), ho cercato (invano) nella mia disordinata biblioteca il volume di Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992) che lo rese a suo tempo famoso, commentato internazionalmente ma anche controverso (e che a suo tempo avevo letto con grande interesse). 

Tanto controverso nella sua tesi di fondo (la famosa “fine della storia”), che lo stesso autore, nel 2019, sentì il bisogno di chiarire e difendere la sua “profezia”, nel volume Identità (Utet, 2019), qui segnalato con un post del 7 maggio 2019 (titolo: Un must read, si direbbe oggi) e, stavolta, ritrovato fra i miei libri. Ebbene, qui, Fukuyama, prendendo spunto dalla elezione di Donald Trump al suo primo mandato Presidenziale (2016), ritorna sul tema de La fine della storia, per precisarne il senso pieno, ma anche per rivisitare una serie di concetti che mi paiono idonei a comprendere il presente, sempre in chiave socio-psichiatrica: anzitutto, il thymos (la parte dell'anima che ambisce al riconoscimento della dignità); poi le sue manifestazioni “politiche”: l'isotimia (l'esigenza di essere rispettati su una base paritaria con gli altri); e, infine la megalotimia cioè l'ambizione di essere riconosciuti come superiori.

E, aggiunge Fukuyama, la domanda di riconoscimento della propria identità è un concetto base che unifica gran parte di quanto sta accadendo oggi nella politica mondiale. Molto di ciò che passa per motivazione economica ha in realtà le sue radici (…..) nella domanda di riconoscimento, e quindi non può essere soddisfatto semplicemente tramite mezzi economici. (….) L'affermarsi della politica delle identità nelle moderne democrazie liberali è una delle principali minacce che queste si trovano ad affrontare, e se non riusciremo a ritornare a visioni più universali della dignità umana ci condanneremo a un conflitto senza fine.

Concludo questa rassegna di socio-psicologia risfogliando il (bellissimo) manuale di Gaspare Vella (Psichiatria e psicopatologia) da cui muoveva il post del 2015 e di cui, poco fa, richiamavo la rilettura. E leggo la sintetica definizione di megalomania: Il soggetto è acriticamente convinto di essere superdotato e quindi strapotente nelle proprie capacità. 

Roma, 24 marzo 2025 (anniversario delle Fosse Ardeatine)

 

PS: ce ne è abbastanza, in questo post, per confermarmi nell’intendimento di sospendere per un po' l’alimentazione di questo blog, almeno finché non avrò qualcosa di… civilmente confortante da commentare (e, temo, per chi ne avrà voglia, ci sarà da aspettare).

 

giovedì 20 febbraio 2025

Per l'igiene del linguaggio

Un appello a noi tutti

(di Felice Celato)

In mezzo ai terrificanti scenari che ogni giorno vediamo evocati (non sempre lucidamente) sui nostri giornali, non dovrebbe esserci spazio per un semplice appello all’igiene del linguaggio, me ne rendo conto. 

L’igiene del linguaggio  potrebbe apparire una futile ricetta di un medico folle che raccomandi ad un moribondo, chessò, di lavarsi accuratamente i denti, anche sul letto di morte. Ma se realizziamo che il linguaggio (non solo verbale) è il veicolo che usiamo per comunicare pensieri o sentimenti sulla nostra realtà interiore o sulla realtà esterna; e che esso finisce per trasmettere impulsi alla riflessione e all’azione anche quando a queste non è positivamente orientato; e che, quindi, esso  postula (entro un certo grado) la necessità di una non equivoca corrispondenza fra significati e significanti;  allora ci rendiamo conto di come l’igiene di tali impulsi è (anche) di fondamentale importanza per la convivenza civile e (anche) per la formazione di una volontà politica all’interno delle moderne democrazie (in cui, più o meno consapevoli, viviamo).

Per non divagare su un tema così vasto, mi soffermerò sul “caso” che ha determinato questo appello: i riferimenti all’Europa (qui intesa come UE). Bene (si fa per dire); fateci caso: nel linguaggio corrente (di media irresponsabili o di politici che si reputano scaltri), non c’è riferimento all’Europa che non abbia un lamentoso (e stereotipato) senso di riprovazione: l’Europa è assente, l’Europa è inconsistente, l’Europa non riesce ad elaborare una linea politica che non sia semplicemente rivolta all’interno di se stessa, per creare regole e burocrazie, l’Europa è vacuamente velleitaria, etc.etc.etc.

Sarebbe da sciocchi negare l’esistenza di alcuni di questi problemi. Del resto anche rapporti pensosi, pensati ed autorevolissimi come il recente Rapporto Draghi o il Rapporto Letta focalizzano – con spirito costruttivo, però – le molte ed importanti cose da fare per migliorare l’efficacia di questo magnifico progetto di pace e di prosperità che i nostri padri ci hanno edificato e che tanto ha giovato al nostro continente. 

Però – rendiamocene conto anche noi, nei nostri linguaggi – vale anche qui un concetto che ho più volte sintetizzato con questo ovvioma: l’Europa siamo noi! Anzi, in virtù del mandato conferito ai nostri rappresentanti politici all’atto della loro elezione, l’Europa, per noi cittadini mandanti, la fanno loro che lì ci rappresentano e lì operano (o dovrebbero operare) per nostro conto e nel nostro interesse. Le volontà dell’Europa la fanno loro, le grandi realizzazioni della nostra patria Europea sono merito loro (o, più realisticamente, dei loro predecessori); e, se siamo onesti con noi stessi, lo dobbiamo riconoscere a loro merito (e non solo quando incassiamo i denari del PNRR!). Ma – teniamolo bene in mente – sono anche loro (per nostro conto) i responsabili di ciò che in Europa (se del caso) non va. Le volontà dell’Europa sono le volontà dei suoi cittadini, che i loro rappresentanti sono tenuti ad incarnare e a portare avanti, con mediazioni, compromessi e diplomazia, nel nostro piccolo Paese come nell’Europa di cui facciamo parte e che abbiamo felicemente contribuito a fondare! 

Certo, devono farlo in un contesto di interessi diversi, talora divergenti (come, del resto, potrebbero esserlo, chessò, gli interessi a certe politiche nazionali dei siciliani o dei lombardi). E questo è vero quand’anche, nelle spesso non decorose campagne elettorali cui assistiamo, ammiccano – per meri istanti di miope propaganda – a scettiche volontà comunitarie, o a riserve mentali che non fanno onore né a chi le coltiva né a chi acriticamente le diffonde né a chi passivamente le ingurgita! 

Se fosse saggio pesare per come appaiono le presenti torsioni geo-politiche globali, dovremmo concludere che oggi – una volta di più – non abbiamo percorribili alternative che non siano foriere di disastri, politici, economici, civili e democratici. Abbiamo una strada tracciata, imboccata e per un lungo tratto percorsa; una strada che implica sforzi, compromessi, complessità – spesso pesanti – da affrontare e da gestire; ma – ancora una volta – non abbiamo alternative che non siano di regresso, di ripiegamento, di frustrazione, di insignificanza. Tutto ciò che sapremo fare per andare avanti in Europa e per l’Europa sarà un merito dei nostri rappresentanti (e perciò nostro); tutto ciò che non sapranno o non vorranno fare sarebbe una loro (e quindi nostra) tragica responsabilità.

Roma, 20 febbraio 2025

martedì 11 febbraio 2025

Letture fuori del tempo

 Anagnosi-terapia

(di Felice Celato)

Mi è difficile negare che, in questo periodo, abbia cercato – nel contatto col mondo e con gli amici – la via della fuga dal reale (contemporaneo). Una fuga che – per me – si origina da un crescente fastidio per i rumori terrificanti del mondo, del paese e della mia amatissima patria, l’Europa, travagliata dalla pochezza di molte leadership dei paesi partners, che spesso trasferiscono sull’Europa (con la complicità di molti media) i mali che essi stessi cagionano o, in Europa, le provocazioni delle loro domestiche campagne elettorali (l’ultima: AfD invoca due diverse monete Europee, l’euro del Sud e l’euro del Nord).

Per questo ho “inventato” la cura che dà il titolo a questo post (anagnosi-terapia) che vorrebbe richiamare, attingendo al greco antico, il concetto terapeutico di alcune letture (anagnosi, sta infatti per lettura, forse come riconoscimento dei simboli grafici).

Ne è conseguito che le molte ore dedicate alla lettura si sono rivolte alla ri-lettura di vecchi libri letti più volte (dall’”eterno” Requiem di Antonio Tabucchi, al Vangelo secondo Pilato di Eric Emmanuel Schmitt, a Lo straniero di Albert Camus, a Il muro invisibile di Harry Bernstein),magari studiando anche l’evoluzione dei miei giudizi (esercizio quanto mai interessante, per “verificare” se stessi alla luce del tempo che inevitabilmente muta anche le sensibilità); oppure a temi “esoterici” (per esempio il libro di un neuro-biologo americano - Angus Fletcher - che analizza i benefici umani dello Storythinking, il pensare in termini di azioni e non in termini di equazioni…e di altro materiale logico, come strumento di conoscenza e di crescita umana); o a temi programmaticamente fuori del tempo (come Alla corte di mio padre, una bella ed interessantissima auto-biografia, anche sociologica, del sommo narratore Isaac Singer, giovanissimo ai tempi del narrato); o anche a temi eterni e, per ciò stesso, oggi quanto mai, desueti ( il Geremia, utilizzato per un esercizio spirituale condotto da Carlo Maria Martini, nel 1993 a Caracas). Mi soffermo brevemente su questo ultimo, perché la mia scelta, fra le tante possibili per non occuparmi dell’oggi, non può non essere stata misteriosamente ispirata dall’innegabile… contemporaneità del profeta di sciagure, che – parlando per immagini di straordinaria efficacia – viveva la sofferenza del suo drammatico profetare in tempi assai amari per Gerusalemme, quando l’alleanza (la mutua adesione, dell’uomo a Dio e di Dio all’uomo, simboleggiata dall’immagine della cintura di lino) sembrava naufragare nelle sciagure del tempo.

Che le ore dedicate a queste letture abbiano “sacrificato” la lettura dei giornali è ovvio; ma è anche voluto. E non ne provo rimorso alcuno (anche perché quando riapro un giornale faccio fatica a pensare in quale giorno siano stati scritti molti articoli). Però mi domando quanto possa durare questa sospensione; resisterà al Festival di Sanremo, alle sue seduzioni, di cui il nostro paese sembra innamorato? Nella irrealistica ipotesi che duri solo poco più di sei o sette giorni, ho pianificato di affrontare la ri-lettura de I Promessi sposi, stavolta  nientemeno che in e-book per legare le ore di lettura al tavolo con quelle della lettura a letto (dove i grossi tomi mi sono scomodi). Don Lisander, da lassù, probabilmente chiuderà un occhio.

Roma, 11 febbraio 2025, anniversario dei Patti Lateranensi

 

sabato 18 gennaio 2025

L'assente

 Elogio del dubbio

(di Felice Celato)

Seguo spesso, sui giornali ma anche – magari mentre  guido - su Radio Radicale, i pressoché quotidiani dibattiti parlamentari; che però mi sono di altrettanto quotidiano sconforto, al punto di farmi radicalmente dubitare sulla loro (residua) utilità. 

Ciò che mi sconforta è un’assenza inquietante: l’assenza del dubbio dagli enunciati, sempre più marcata man a mano che “sale” il vigore (sempre comunque alto) delle asserzioni: solo certezze, di infinita saggezza dell’agire politico della maggioranza o di totale insensatezza (se non di criminale intenzionalità) di tale agire nell’ottica della minoranza. E ciò anche quando la materia dibattuta è di estrema delicatezza e complessità come, per esempio, la vexata quaestio – aspramente discussa in queste ultime settimane – della cosiddetta separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti e, soprattutto, della sua concreta attuazione [del resto se, come è possibile, ci sarà un referendum avremo modo di rifletterci in maniera più cosciente, quando il gran parlare sarà diventato, appunto, norme concrete, ancorché soggette a referendum]; oppure quando la materia dibattuta comporta, per sua natura (vedansi, per esempio, i temi economici o di politica fiscale), un bilanciamento di pro e di contra assai difficili da valutarsi ex ante e comunque altamente dipendenti anche da visioni del mondo (la Weltanshauung, dei filosofi) assai divergenti e, magari, talora inconciliabilmente opposte.

Si dirà che in fondo la “politica politicata” deve necessariamente propinare certezze, sia sulle linee d’azione della maggioranza governante sia sulle ragioni della minoranza opponente; e che, ancora in fondo in fondo, il vero taciturno interlocutore è proprio l’ascoltatore lontano dalle aule parlamentari, cioè quello che io chiamo il destinatario dell’offerta politica, il popolo elettore; e che, quindi, in sé, ogni dibattito parlamentare è fattualmente disassato, cioè apparentemente svolto fra falsi interlocutori funzionali (cioè i parlamentari votanti) ma in realtà rivolto all’esterno, all’interlocutore non presente in aula, o tutt’al più ai suoi araldi (i giornalisti parlamentari, poveri loro, incaricati di riferirne al popolo elettore).

Diceva Voltaire che il dubbio è scomodo ma solo gli imbecilli non ne hanno; e poiché escludo – nel modo più categorico, perbacco! – che i nostri parlamentari considerino il popolo elettore (cioè chi li ha mandati a governare o ad opporsi, chi – in sostanza – li ha votati) un aggregato di imbecilli, devo concludere che i nostri parlamentari vogliano solo – generosamente, per carità!– preservarci dalle scomodità del dubbio, propinandoci le loro indubitabili certezze del momento, anche al rischio di accollarsi, però, loro stessi, personalmente, il Voltaireiano sospetto di imbecillità.  

Se lo fanno con questa intenzione, mi sentirei di rivolgere loro una cortese preghiera: per favore non tentate di preservarci dalla scomodità del dubbio, mantenete a nostro carico questo fardello, perché il dubbio è profondamente appassionante (come diceva Oscar Wilde); così, quando indirettamente vi rivolgete a noi (fingendo di dibattere fra voi), non propinateci indubitabili certezze perché ci farebbero dubitare di voi (e quindi della nostra sperata saggezza di elettori, della quale, pure, non vogliamo dubitare). Mi rendo conto che questo guasterà il "piacere" di ascoltarvi litigare, ma ce ne faremo una ragione!

Roma  18 gennaio 2025

 

 

 

domenica 5 gennaio 2025

Tempus regit actus

Divagazioni latine

(di Felice Celato)

Tempus regit actum  (insegnano i giuristi processualisti), per intendere che ogni atto va valutato  secondo la disciplina vigente al momento del suo compimento; ma oggi – chissà perché – mi viene in mente di mettere actum al plurale (actus, accusativo plurale), liberamente traducendo così: il tempo (per noi uomini: l’età) “governa” gli atti. Me ne accorgo soprattutto (ma non solo, purtroppo!) quando gioco a golf! Il tempo governa la qualificazione dei nostri atti! Benedetto il tempo, che ci dà continuamente la misura del suo decorrere... ricordandoci che fugit irreparabile tempus (diceva Virgilio).

Roma 5 gennaio 2025