giovedì 19 gennaio 2023

Segnalazione breve

Stato essenziale e società vitale

(di Felice Celato)

Per “compensare” i lettori delle “lungaggini” dell’ultimo post, eccomi con una segnalazione breve; l’oggetto è lo stimolante volumetto, di un centinaio di dense pagine, scritto a quattro mani da Alberto Mingardi e Maurizio Sacconi col titolo Stato essenziale società vitale – Appunti sussidiari per l’Italia che verrà (Editrice Studium, 2022).

Si tratta di una ragionata ed argomentata raccolta di idee e proposte destinate a ri-generare, anche in Italia, quel contesto socio-politico e, starei per dire, culturale che il titolo enuncia con chiarezza: uno stato essenziale (nei suoi ambiti propri e nelle sue modalità funzionali) per ridare vigore alla nostra società immalinconita e depressa (cfr. Censis 2022), imbolsita da uno stato pesante e invadente, instancabile dilatatore del proprio perimetro (e del proprio debito); un intento – l’avranno capito subito, dal titolo, i lettori più attenti di questo blog – che è lo stesso che avevo qui cercato di delineare un paio di mesi fa (Il mantello – Appunti liberal-democraticipost del 18 novembre 2022), tentando di fabbricarmi un mantello di soli principi per “proteggermi” dai venti che seguitano a spirare dal "quadrante" statolatrico. [Ho usato qui troppe volte questo termine per doverne chiarire il senso; chi invece vuol tornare a sorriderne può riandare al post del 5 marzo 2017, Spigolature di statolatria/2 – La sindrome di Munchausen].

Ecco, il libretto di Mingardi e Sacconi sviluppa (come dicevo: con ricchezza di argomenti) proprio questo cammino; e costituisce – mi pare – quell’ esempio di ri-progettazione del futuro di cui sentono il bisogno tutti quelli che avvertono con chiarezza la latenza delle risposte della nostra politica (cfr. Censis 2022) e l’obnubilamento della responsabilità collettiva di futuro che ha finito per caratterizzare la nostra società (cfr. Censis 2022).

Non voglio ( e non saprei nemmeno) dire se le proposte dei due autori (in molti e diversi ambiti) siano – tutte e pienamente – efficaci rispetto allo scopo che il titolo stesso del volume sintetizza; però è certo che esse vivono, nel loro dipanarsi, di una coerenza che mi pare perfettamente funzionale ad esso. Ed è anche certo che l’aria che si respira nelle pagine di Mingardi e Sacconi fa molto bene… alla respirazione civile.

Insomma: una lettura che raccomando a tutti, anche (anzi, forse soprattutto) a quelli che non sentono – diversamente da quanto accade a me – il bisogno di una radicale discontinuità, di una via coraggiosa e promettente (non ignota alla nostra storia) verso una società migliore per gli uomini e le donne che avranno la fortuna di ritrovarla e di abitarla.

Chiudo la segnalazione riportando un antico (1952) ma sempre attuale monito di don Luigi Sturzo, citato in esergo al volumetto: Guai che un uomo, che un gruppo di uomini, pensino di modificare il mondo con la bacchetta magica del potere statale, credendosi onnipotenti, mentre dovrebbero sentirsi umili cooperatori delle forze sociali nel loro progressivo sviluppo.

Roma 16 gennaio 2023

 

domenica 15 gennaio 2023

Rimuginando

.... fra politica e culinaria

(di Felice Celato)

Mentre osservo, con umore depresso, lo scialbo dipanarsi del nostro pubblico discorrere di politica, infastidito dalla confusa occupazione di slogan più o meno vuoti (e pericolosi), mi è tornato in mente un libro di “apparente” culinaria al quale ho qui dedicato tre anni fa una calda segnalazione per la lettura (Oltre la storia culinaria, del 25 gennaio 2020): si tratta de Il mito delle origini (Laterza, 2019, disponibile anche in ebook) nel quale lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari traccia una breve storia degli spaghetti al pomodoro

Come si connette la politica dei miei… fastidi con l’arte della cucina? Coloro che a suo tempo hanno seguito il mio consiglio per la lettura non faticheranno a intuire le ragioni della connessione ( e potranno, senza rimorso, abbandonare la lettura di questo post); coloro che invece non abbiano letto l’eccellente libretto sono sicuro gradiranno leggerne almeno l’intera introduzione (Parole. Maneggiare con cura) e qualche riga delle conclusioni, perdonando lo “sforamento” della consueta lunghezza dei nostri post; mi pare, infatti, che le forse non troppe righe contengano molti spunti per riflettere sulle parole (e sui concetti) che tanto spesso non sono proprio maneggiate con cura.

Idolo delle origini lo chiamava Marc Bloch, il più grande storico europeo del Novecento. Ricercare nel passato ciò che prepara il presente, diceva Bloch, è un’ossessione tipica di chi si occupa di storia. Essa domina anche l’immaginario collettivo. Niente di male, in apparenza. Tutto sta a intendersi sul significato di ‘origini’. Semplicemente ‘inizi’? In questo caso, il concetto sarà abbastanza chiaro. O si vorranno intendere le ‘cause’? In questo caso, saremmo di fronte a un determinismo storico tanto ingenuo quanto insostenibile, e contraddetto dall’esperienza: dato un punto di partenza x, non esiste un solo punto d’arrivo y ma una molteplicità di direzioni possibili, definite dalle circostanze, dall’interazione di forze diverse, dal caso, dall’imprevisto. 

Il problema è che tra i due significati avviene spesso un salto logico: «nel vocabolario corrente le ‘origini’ sono un cominciamento che spiega. Peggio ancora: che è sufficiente a spiegare». Qui sta l’ambiguità, qui il pericolo: confondere una filiazione con una spiegazione. Perché una ghianda non è una quercia. 

La metafora di Bloch è fulminante. «La quercia nasce dalla ghianda. Ma diventa quercia e tale rimane, solo se incontra condizioni d’ambiente favorevoli, che non dipendono più dall’embriologia». Ed è questo che veramente interessa lo storico: l’analisi delle condizioni ambientali, del tessuto economico, sociale, culturale che consente alla ghianda di diventare quercia. Le origini, a quel punto, importano davvero? 

Le origini in realtà non spiegano nulla, perché un seme è necessario a dar vita a una pianta, ma non sufficiente a generare una radice e, su questa, una pianta. Ecco che cosa sono le ‘origini’: non una ‘causa’ ma semplicemente un seme che può diventare pianta, a condizione di incontrare un ambiente favorevole. È la parola-chiave: incontrare. Più numerosi e interessanti saranno stati gli incontri, più ricchi saranno i risultati, più forte e robusta la pianta. In questo modo essa avrà costruito la propria identità, che, come ogni prodotto della storia, è viva e mutevole. Viva in quanto mutevole – «il moto è causa d’ogni vita» è il celebre aforisma di Leonardo. Quanto alle radici che questa identità hanno reso possibile, lanciarsi alla loro ricerca è un’esperienza che può rivelarsi più avventurosa del previsto, portandoci a visitare luoghi, società, culture che non sono necessariamente la nostra. 

Radici e identità sono parole pericolose, da maneggiare con cura. Frequentemente le si vedono fraintese e confuse, mentre è importante distinguerle. Le radici abitano il passato: sulla linea del tempo – se vogliamo raccontare la nascita, la crescita, lo sviluppo di qualsiasi realtà – stanno all’inizio, e nello spazio si allargano per trarre alimento da ogni fonte raggiungibile (la metafora botanica, affinché sia utile, va usata fino in fondo). All’altro capo della linea del tempo stanno le identità, che invece abitano il presente – un presente mobile, sempre teso a proiettarsi nel futuro diventando esso stesso passato. In qualsiasi punto della linea cronologica, le identità sono un punto d’arrivo: spazi mentali e materiali ben delimitati le caratterizzano, ma sempre instabili e mutevoli, come è proprio di tutto ciò che vive. 

Perdere di vista questa vitalità significa precludersi uno sguardo veramente storico attorno al tema delle identità e delle radici da cui esse provengono, ossia le loro ‘origini’. Significa pensarle immutabili rispetto al futuro, preoccupandosi non di tenerle in vita – con gli opportuni adattamenti – ma di congelarle, codificarle, musealizzarle. Significa pensarle immutate rispetto al passato – un passato che a questo punto diventa puro mito e colossale mistificazione. È l’idolo delle origini che rispunta, contro ogni evidenza, contro ogni logica. E si giustificano le scelte radicali di quanti non si limitano a raccomandare cautela nell’uso di questi concetti e di questi termini, ma li contrastano fino ad auspicarne l’eliminazione dal vocabolario e dall’immaginario collettivo. Contro le radici ha scritto Maurizio Bettini, Contro l’identità ha scritto Francesco Remotti – giusto per citare due casi esemplari. Contro le origini si sarebbe potuto chiamare questo piccolo saggio. Ma lo storico si illude che il semplice racconto dei fatti possa aiutare a far luce sul senso delle parole e delle cose. Soprattutto quando le ‘cose’ sono aspetti della vita con cui ci confrontiamo quotidianamente. Per esempio il cibo, i prodotti alimentari, le ricette di cucina. 

È possibile sedersi a tavola di fronte a un piatto di spaghetti al pomodoro e riflettere sul senso delle radici, delle identità, delle origini? È quanto ho provato a fare in queste pagine.

 

E, in conclusione del libro: Questa piccola grande storia ci ha mostrato – nella concretezza di un piatto di spaghetti – che l’identità non corrisponde alle radici. L’identità è ciò che siamo. Le radici non sono ‘ciò che eravamo’ bensì gli incontri, gli scambi, gli incroci che hanno trasformato ciò che eravamo in ciò che siamo. E più andiamo a fondo nella ricerca delle origini, più le radici si allargano e si allontanano da noi – proprio come accade sotto le piante. Usando la metafora fino in fondo, scopriremo che le radici, spesso, sono gli altri. Cercare le origini di ciò che siamo sarà dunque un modo per incontrare gli altri. Gli altri che vivono in noi.

Roma  15 gennaio 2023

 

 

mercoledì 4 gennaio 2023

Stupi-diario del tempo

Ultimo quarto

(di Felice Celato)

Se chiedessimo ad un bambino della prima elementare di contare le ore della giornata, sicuramente il bambino comincerebbe da 1 e proseguirebbe fino a 24, soddisfatto di aver sciorinato così le prime acquisizioni dell’aritmetica e anche le prime nozioni della misurazione del tempo. E alla fine riceverebbe le meritate lodi del richiedente.

Me se il bambino avesse, per un bizzarro gioco di una natura veramente matrigna, fatto per una vita, anteriore alla sua nascita, il mio mestiere, riferendosi al tempo probabilmente comincerebbe da 0, perché ciascuna ora è fatta di una sequenza di istanti che cominciano, appunto, al tempo 0, cioè all’inizio della prima ora.

In una scherzosa e paradossale polemica con un mio amico e congiunto (di tutt’altro mestiere), proprio in queste settimane in cui cadono i nostri compleanni (molto vicini, ancorché in anni diversi!) ho sostenuto che entrambi (“compiendo” 74 anni) entriamo, nel dì del nostro compleanno, nell’ultimo quarto della nostra (auspicabilmente?) secolare esistenza; che – come tale - comincerà al compimento del 99° anno di età, per compiersi il giorno del 100°. Inutili sofismi e deformazioni professionali, diranno i miei pazienti lettori; e senz'altro avrebbero ragione.

Ma, ahimè, come dicevo poco fa, il tempo è fatto di una sequenza di istanti (istante: frazione minima del tempo, spiega la Treccani) e, a seconda dell’età, ogni istante tende ad avere un suo peso specifico (pensateci: quante sono le differenze fra un bambino appena nato e un bambino che “compie” un anno?). Ad una certa età (la mia) ogni istante tende a pesare di più, come accade proprio nei primi anni di vita. Ma non perché, nello spazio di un anno, come il bambino appena nato, acquisiamo qualcosa, chessò, una maggiore capacità comunicativa, una minima conoscenza del mondo che ci circonda, o anche semplicemente un diverso gusto per le pappe che ci somministrano. No, alla nostra età non acquisiamo più: lentamente perdiamo, invece; e forse in ogni istante. Io, per esempio, ho cominciato a perdere accettabili livelli di pazienza e, forse, anche il piacere di guardarmi attorno che avevo sempre avuto per una vita.

Già l’anno scorso, in analoga ricorrenza, avevo tentato una “esternalizzazione” dei sintomi dell’invecchiamento (che allora definivo “immateriale”, cioè dell’animo e non del corpo): forse non è il mio animo che si è invecchiato, ma  è “solo” l’ambiente che mi consuma e mi sfinisce: forse (sempre forse!) se non ci fosse tutto ciò che vedo dattorno io sarei ancora rimasto quel baldanzoso giovane uomo che ero solo 40 anni fa!

Ma, già un anno fa, avevo dei dubbi che questa “esternalizzazione” reggesse, e oggi mi vado convincendo (anche senza scomodare il sant’Agostino che citavo l’altro giorno) che non sempre (e di tutto) si può dare la colpa all’ambiente.

Forse alla radice del crescente disagio c’è proprio l’usura dei metri di giudizio, che, magari, dovrebbero via via adattarsi alla realtà, disponendoci ad accettare il fatto che il mondo cambia e noi (vecchi) non riusciamo a tenerne il passo se non modificandone la “metrica”.

Il fatto è che – almeno io – rimango tenacemente affezionato ai miei metri di giudizio e non sono disposto a barattarli con quelli ora correnti.

Cocciutaggine di un vecchietto bizzoso? Può darsi; vedremo (o, più realisticamente: chi vivrà, vedrà).

Roma, 5 gennaio 2023